I fratelli di Nonna Marietta
Altri due fratelli si laurearono: Michele in biologia, e Mimì, il più giovane dei fratelli maschi, in medicina veterinaria. Durante gli studi svizzeri prima e milanesi poi, non lesinarono problemi al padre. Contro il suo dispotico volere, si misero a commerciare in vino pugliese con alcune osterie di Milano, quelle mescite chiamate “Trani”, come l’omonima cittadina pugliese. Così, tanto per riuscire a pagarsi il tabarin o qualche casa di piacere, cose improponibili col misurato appannaggio paterno.
Quando tornavano insieme al paese natale per un periodo di vacanza, ne combinavano di tutti i colori. Proverbiale rimase la loro incursione ai lesti, carri che raccoglievano i liquami delle famiglie porta a porta. Non c’erano ancora le fognature nella loro cittadina di sessantamila abitanti: Corato. Ogni eufemismo non potrebbe rendere meglio l’idea della “merda” istituzionalizzata. Era proprio merda, quella che veniva quotidianamente ritirata in orari antelucani e versata attraverso una bocca di carico dagli appositi contenitori in ceramica o in ferro smaltato nelle botti di metallo zincato montate su carri trainati da muli. Durante i lungo tragitto attraverso strade e stradine non ancora asfaltate del paese, i liquami oscillavano paurosamente e spesso tracimavano con paurosi schizzi dalla botola, lasciando i segni del loro passaggio con fetide scie presto aggredite da sciami di mosche impazzite. Il contenuto giungeva a destinazione dopo un lungo tragitto interrotto da una sosta della carovana per “un caffé” e veniva sparso lontano dalla cittadina, attraverso uno scarico posteriore in una maleodorante palude in mezzo agli olivi, lontano dalla periferia, che tutti chiamavano “Il Mar rosso”.
A casa della nonna Marietta l’unico autorizzato a ritirare i contenitori era Rocco, detto “ il lestaro”: era tenuto ad annunciarsi con uno squillo di trombetta miagolante, senza toccare il batacchio sul portone, salire la grande scalinata di pietra senza sfiorare il brillante corrimano d’ottone e a fermarsi a distanza di sicurezza per ritirare i recipienti, che doveva accuratamente tenere in equilibrio nella discesa, svuotarne lo sconveniente contenuto nel carro e deporre con cura e attenzione dove li aveva trovati, senza toccare assolutamente nulla, porte, muri e ringhiere. Il poverino arrivava sul pianerottolo a mani alzate sopra la testa come un combattente che si arrende al nemico e, ultimato il rito, doveva dileguarsi sempre a mani levate, come un prigioniero di guerra. Scomparso che era dietro il portone chiuso, una squadra di pulitrici affrontava con sapone e varechina lo scalone inquinato da quel pericoloso passaggio. Carri, vetturini e muli, prima di avviarsi alla località prescelta per la deposizione del delicato carico – il cosiddetto Mar rosso, non per fantasiose analogie coi biblici eventi dell’esodo del popolo di Mosè, ma più semplicemente per il colore che aveva, di un preoccupante rosso bruno - facevano un’immancabile sosta mattutina alle prime luci del giorno presso un caffè aperto di buon’ora proprio per loro e disposto ad accoglierli all’andata, come e al ritorno, o in qualsiasi ora del giorno avessero deciso di bere in compagnia un bicchier di vino o di fare una rumorosa partita a carte. Era quello che si potrebbe definire un caffè esclusivo, ma non riservato, come tanti altri caffè famosi in tutt’Europa, ad artisti, a pittori e a letterati, bensì a un gruppo speciale addetto a odorose mansioni e con cui nessun normale cittadino sarebbe stato disposto a condividere gli spazi ristretti di un locale pubblico di infima categoria e la stessa aria da respirare, pesante com’era di fumo di tabacco a buon mercato e di afrori corporali da svenimento. Un giorno, mentre i vetturini si affollavano nel locale con le loro grigie palandrane a bere e smadonnare contro il governo, i due maligni fratelli si avvicinarono di soppiatto alla lunga carovana e aprirono tutti i tappi posteriori dei carri, dando luogo in breve a un vero torrente fetido e vomitevole, che raggiunse in rivoli anche alcune strade del non lontano centro cittadino. I due impenitenti fratelli furono additati dallo stesso padre al pubblico abominio e da lui costretti a un estenuante, faticoso e nauseante lavoro di pulizia con pale e secchi, che durò alcuni giorni sotto gli occhi della gente assiepata. Michele impalmò una delicata fanciulla fiorentina, proprietaria di un’austera pensione sui Lungarni. Di zia Andreina mia madre e le sue sorelle raccontavano che avesse una pelle bianca come il latte, liscia come la seta e lunghi capelli biondi raccolti in un impeccabile chignon, un viso da madonna con grandi occhi azzurri. Ma non andavano oltre. Era la nonna Marietta che, nelle fredde serate d’inverno, quando ci raccoglievamo intorno al braciere d’ottone, e alla circolare pedana di legno che lo conteneva, a bruciare bucce di mandarino e croste di pane, ci raccontava l’incredibile avventura toccata alla delicata sposina in occasione della sua prima visita al paese del marito. La nonna si aggiustava il tuppo, sistemava le forcine di tartaruga, si accomodava sulle spalle lo scialletto nero fatto all’uncinetto e rievocava con lucidità visionaria l’antico dramma. I due sposi erano giunti nella casa paterna in viaggio di nozze e la bellezza immacolata della sposa intenerì anche nonno Batù, tanto da fargli cedere, non senza avere tentato più volte di opporre qualche tentativo di rifiuto, alla richiesta di zio Michele di fare un giro per la città in calessino con Grillo, il trottatore bello e nevrile, cui il nonno teneva gelosamente. Zio Michele, col vestito da passeggio, il petto gonfio di orgoglio, issò la moglie sulla charrette con le ruote gommate, il divanetto di marocchino e il grande soffietto abbassato, la lunga frusta nel suo supporto, i finimenti del fiero cavallo baio lustri come alla festa di S. Cataldo. Ci teneva a fare un giro per il Corso con la bella moglie e quel magnifico esemplare equino, che la gente era abituata a veder condotto soltanto da suo padre. Imboccò al passo il corso circolare pavimentato con blocchi di basalto e presto mise l’animale al piccolo trotto. Lo stallone avvertiva la diversa mano sulle redini e serrò il ritmo senza obbedire al cocchiere. Quando il calessino prese a incrociare altre vetture, l’animale, eccitato dalla presenza delle giumente, ruppe il trotto in uno sfrenato galoppo che zio Michele non riuscì a contenere, invertì bruscamente la sua corsa, rischiando di travolgere passanti e carrozze, sbalzò il conducente dal suo sedile, mentre la giovane sposa atterrita cadde dalla vettura con le mani disgraziatamente allacciate alle redini nel tentativo di frenare la furia d’animale. Venne trascinata per molte centinaia di metri, lasciando gli indumenti e l’eburnea pelle sulle ruvide “chianche” della pavimentazione stradale e rimanendo completamente nuda, coperta solo di sangue e dilaniata come “Cristo alla cannella”. Un robusto contadino, un generoso figlio del popolo, si parò davanti a Grillo e lo fermò appendendosi letteralmente al morso. Lo stallone tentò di liberarsi dalla dolorosa stretta, si impennò, mulinò il capo, soffiò come un toro impazzito. Infine, si arrese. Una signora pietosa accorse a celare agli sguardi dei curiosi il corpo straziato della poverina col suo mantello. Il valoroso contadino riconsegnò al nonno Batù il cavallo prediletto schiumante,sudato, spaventato, ansimante e un involto con dentro un mucchietto di stracci sanguinolenti e il corpo della nuora. Si allontanò discreto, rifiutando la generosa mancia. Le prime, amare cure furono per il cavallo. Poi il patriarca ordinò di chiamare il suo amico medico per la povera donna. Il figlio Michele, contuso e malandato anch’egli, umiliato per la brutta figura, raggelato dai nervosi sguardi del padre, così carichi di rimprovero e di compatimento, addolorato per ciò che aveva causato alla giovane moglie per imprevidenza e presunzione, fu costretto ad assistere in silenzio e ignorato da tutti alle scene di umana pietà riservata alla poveretta, che gemeva ad ogni toccatura, ad ogni lavaggio delle ferite, ad ogni disinfezione. Lei ci mise un mese a guarire dalle estese abrasioni su tutto il corpo e della brutta figura per essere stata trascinata nuda per il corso di quella assolata città del Sud, sotto gli sguardi indiscreti di tanti rozzi maschi, per colpa di un marito presuntuoso e incapace di dominare un animale focoso. Quando Andreina si rimise, zio Michele la ricondusse a Firenze e al nostro paese non la si vide più. Ricordo zio Michele: venne a trovare la sorella e l’anziano padre nell’immediato dopoguerra, accompagnando quella che sarebbe divenuta la “badante” del nonno Batù. Brillante conversatore, uomo dotato di grande cultura e di una delicata ironia, trascorse la sua vita a Firenze, tra le stanze dell’austera pensione di zia Andreina. Non visse a lungo. Lo stesso accadde per la sorella Lina, che lo aveva seguito in Toscana col secondo marito ed era vissuta sino alla fine in una bella tenuta di campagna nei pressi di Castelfiorentino. Zia Andreina morì vecchissima e nel 1966 andai a trovarla nella sua bella pensione ai Lungarni. Mi presentai come pronipote del marito. Venni accolto con fredda cordialità. Ero a Firenze per frequentare il corso di ufficiale medico e, l’ultima sera prima di rinchiudermi nella caserma di Costa S. Giorgio, venni invitato a dormire in pensione. La figlia Lilla(Gabriella?), invece, fu caldamente affettuosa e accogliente. Accettai l’invito solo per lei. Mi fu consegnata una chiave dell’ingresso tra mille raccomandazioni di non far tardi e di non disturbare la quiete degli altri ospiti. La stanza assegnatami era di un lindore esemplare e immacolato, tanto da mettere soggezione a chiunque e da consigliare di non toccare le candide lenzuola perfettamente stirate. La cena la consumammo insieme in un salone troppo grande per noi e per i pochi ospiti dell’albergo in un silenzio inviolabile, ferito solamente dal rumore del mio cucchiaio contro il piatto della minestrina. Tra una portata e l’altra zia Andreina mi chiese della nonna Marietta, di mia madre e delle sue sorelle. Le lessi più volte sul suo viso da cammeo l’ombra di un dubbio: quello che io sapessi della sua terribile avventura. Fui più volte sul punto di affrontare l’argomento, ma mi fermai in tempo. Di buon mattino ripartii senza riuscire a salutare l’imperturbabile zia dai capelli argentei e dal viso di alabastro. - Dorme sino a tardi , mi disse Lilla, abbracciandomi calorosamente sulla porta della pensione. Rimasi a Firenze per tre mesi, allievo ufficiale medico a due passi dalla Pensione Rigatti, ma non rividi più né prozia , né procugina. Zio Mimì fu veterinario per tutta la vita a Bisceglie, a soli otto chilometri dal paese natale. Schivo e scarsamente incline ai rapporti sociali, sposò una donna che trascorse tutta ingioiellata la propria esistenza tra un divano e un letto, sedicente ammalata grave, cui nessuno riuscì mai a diagnosticare una vera malattia che non fosse una nevrosi ipocondriaca, o un’idiosincrasia verso le responsabilità di una madre di famiglia. Tra mal di testa e coliche riuscì a ingrigire la vita del consorte.. Credo di aver visto zio Mimì una sola volta, piccolo e nervoso, il naso affilato, come la sorella minore. Ne ricordo la casa: grande e affacciata sulla piazza principale, una grande dimora padronale scarsamente illuminata, con le persiane chiuse e le pesanti tende tirate. Vi ero arrivato condotto per mano dalla nonna, che faceva visita al fratello e alla cognata. Lei ci accolse truccata e ingioiellata, distesa sulla dormeuse, dalla quale continuò per tutto il tempo della visita a impartire ordini al marito e alla servitù, intercalando lamenti dalle varie tonalità ai racconti interminabili dei suoi fantasiosi malanni.Del fratello e della sua dolente cognata la nonna parlò poco per tutta la sua vita. Io non li rividi mai più. Pare che i due fratelli avessero avuto una discussione per motivi di eredità, rimanendo molto a lungo senza vedersi e senza scriversi neppure una cartolina postale. Prima che la nonna morisse dovette essere stato un fugace riavvicinamento. Entrambi vecchi, non erano mai più riusciti a ricostruire un’intesa, se non un fraterno, flebile affetto. Il quarto fratello – Cataldo, detto zio Carlo, o Carluccio - rimase nella città natia, occupandosi delle proprietà che il padre gli aveva assegnato. Un simpatico e segaligno iracondo, contestatore nato, uomo senza peli sulla lingua, incline al diverbio e a un velenoso sarcasmo - era il figlio di don Luigi u’ v’rdone che più gli assomigliava- che morì relativamente giovane per un attacco cardiaco. Lui e la nonna Marietta avevano sposato due fratelli, zia Rosina e il nonno Luigi Piarulli. Le nostre visite a casa sua erano frequenti e piacevoli. Alla sua casa di Via Trani si accedeva per una scala ripida, al termine della quale si trovava tutto un mondi di parenti, i tanti cugini: Renato, Luigi, Salvatora, Ida (Piccina), Luisina. Filomena viveva a Matera, andata sposa a un Trotta di quella città. Rimase vedova precocemente e me ne ricordo come di una donna sofferente, sfortunata nella vita. Zio Cataldo morì per un attacco cardiaco e non molto più tardi lo seguì Zia Rosina, dopo lunghe ed estenuanti sofferenze. Si chiuse così un epoca di “visite” a casa di Zia Rosina e di Zio Cataldo, che vissi come una perdita, un vuoto nelle nostre abitudini di un’epoca che non conosceva ancora la televisione, la scatola truffaldina che avrebbe in breve stravolto la forma più elementare della nostra vita sociale.
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