la casa che non c'è più
La casa che non c'è più.
Storia di polli e di un Ferragosto.
E' stato difficile trovare la fotografia della casa dei nonni materni. Dopo molte infruttuose ricerche, un giorno che mi ero recato presso lo studio di un geometra di Corato per alcuni documenti relativi all'abitazione dei miei genitori - dopo alcuni anni dalla morte di mio padre mamma aveva deciso di mettere in vendita la sua casa - vidi una fotografia appesa al muro alle spalle del tecnico. Era l'introvabile immagine della casa dei nonni a Largo Plebiscito, proprio di quella in cui io e miei fratelli, Riccarda ed Ettore, eravamo nati dal 1941 al 1950.
Purtroppo, quando ero ufficiale medico a Merano, l'edificio era stato venduto. Al suo posto era sorto un orribile e triste mezzo grattacielo e così i miei ricordi dell'infanzia e dell'adolescenza avevano perduto per sempre il loro essenziale riferimento.
Chiesi subito al geometra come avesse rintracciato quella fotografia. Mi rispose brusco che si trattava di una cartolina illustrata, da cui aveva ricavato un ingrandimento.
Di cartoline vecchie con vedute di Corato ce n'erano tante presso qualche cartolaio del posto e lui ne aveva una collezione, le più significative, ma la fotografia di di Largo Plebiscito era davvero una rarità.
Gli chiesi di vendermela - ci tenevo, era la foto della mia casa natale - e di stabilirne il prezzo, ma ottenni, come avevo temuto, un netto diniego. Perciò, visibilmente contrariato, lasciai cadere l'argomento per sbrigare rapidamente la pratica che mi premeva. Fornii i miei dati, il numero telefonico e l'indirizzo, e chiesi un po' piccato di non farmi aspettare troppo per quei documenti.
Avevo fretta di uscire, mi infastidiva quel modo di fare, che tradiva un assoluto disinteresse per il mio problema: quello di entrare in possesso della fotografia, l'unica testimonianza di qualcosa di tanto caro, che non c'era più.
Prima di salutare chiesi l'onorario. L'uomo mi pregò di attendere, sparì dietro una porta e dopo alcuni minuti riapparve con una busta in mano.
Quant'è?, gli chiesi gelido.
Nella busta troverà il documento che mi ha chiesto. Suo padre era un mio buon cliente. Non mi deve nulla.
L'imbarazzo si aggiunse all'irritazione per il diniego ricevuto.
Ringraziai e mi allontanai rapidamente non senza aver dato un ultimo sguardo alla fotografia.
Dopo qualche giorno ripresi la via del ritorno a Canazei, portandomi dietro qualche prodotto tipico della mia terra, erbe spontanee altrove introvabili, funghi cardoncelli, l'immancabile mazzo di origano selvatico, il pane cotto nel forno a legna, le olive nere fresche da soffriggere con olio, peperoncino e un pomodorino di quelli "appesi" per l'inverno: tutti generi di conforto, soprattutto per certe nostalgie ricorrenti.
Mi rituffai nel lavoro.
Trascorsa una settimana, mi venne recapitato un plico postale. Diedi un'occhiata al mittente: forse il geometra ci aveva ripensato e mi aveva inviato il conto. Aprii la busta. Dentro, protetta da due cartoncini, c'era la fotografia. Su di un foglio di carta intestata c'era scritto:
"Caro dottore, questa gliela dovevo. E' una copia. A me è rimasta la cartolina originale. Non le costa nulla, perché i ricordi non hanno prezzo di mercato".
La foto è degli anni venti, è stata scattata da Piazza Simon Bolivar, dal lato dello studio fotografico "Di Gennaro".
E' probabile che a quell'epoca l'edificio non fosse di proprietà dei nonni, che forse allora vivevano ancora in una casa di Via Trani. La nuova dimora venne acquistata qualche anno più tardi e non seppi mai se dalla nonna o dal nonno, oppure da ambedue. Ai bambini e ai ragazzi simili cose non dovevano interessare.
Sul Largo Plebiscito, un quadrato di cemento levigato, si affacciava la chiesa di S. Giuseppe con la sua massiccia e alta cancellata a chiudere il sagrato, alla cui sinistra sorgevano appaiate l'abitazione dei signori Pisicchio e quella dei nonni.
A dire il vero la porzione di casa che si affacciava con tre balconi sul Largo Plebiscito era passata per una parte in dote a zia Bianca, che l'abitò finché l'edificio non venne demolito.
La porzione più grande, quella appartenente ai nonni, dava invece sul Largo Plebiscito, su Piazza Plebiscito e su di un vicolo dall'altro.
L'accesso era unico per i nonni e per zia Bianca; il grande portone in legno che si vede sulla destra era largo abbastanza da far passare una carrozza o un'automobile. La generosa scalinata, tutta in pietra bianca, comoda di gradini e per nulla faticosa, attrezzata di un ricco e robusto corrimano in ottone, conduceva a un grande ballatoio con il pavimento di maiolica verde, che un grande lucernario a cupola illuminava di giorno e anche di notte, quando c'era la luna. Una specie di rudimentale osservatorio astronomico di notte e meteorologico di giorno, che forniva al nonno preziose, sebbene spesso fallaci informazioni sul movimento delle nuvole, sui temporali e le grandinate che avrebbero potuto danneggiare le colture di uva e di olive. Quella cupola in vetro e piombo era inoltre l'unico diaframma che divideva Luigi Piarulli da tutti i santi del Paradiso, la suprema comunità che era solito strapazzare in qualche occasione: quando si arrabbiava con la nonna Marietta, o allorché i dazieri riuscivano a placcare i suoi due uomini di fiducia della cantina vini, mentre sfrecciavano in bicicletta per le strade di Corato senza bolle di consegna per le botticelle di nettare da consegnare alle rare mescitorie locali. Erano Ziello, magro, piccolo e nervoso, e Colino, un omone tutto muscoli; a cavallo dei loro antiquati ma robusti velocipedi riuscivano spesso a seminare i gabellieri. Quando non ce la facevano, col volto e le mani levati verso il cielo il nonno Luigi infilzava in un rosario blasfemo l'intero calendario di santi e di beati. La nonna si allarmava e gli raccomandava di non fare la solita sceneggiata lungo le scale, per evitare di essere incenerito da un fulmine. Ma le occasioni più frequenti per le sue proverbiali giaculatorie erano proprio i litigi con la nonna: resisteva alle sue filippiche per un po' e poi scappava sbattendo la porta; nello scendere le scale, zoppicando per una maledetta gotta, strapazzava santi e madonne fino a quando non varcava la soglia del portone. Uscito che era sul Largo Plebiscito, lo spettacolo della umile facciata barocca della chiesa di San Giuseppe alla sua destra lo ammutoliva e il pericolo di essere fulminato piano piano si allontanava.
Ho spesso pensato che il fulmine vendicatore non l'avesse mai ridotto in cenere grazie all'intercessione del santo vicino di casa da sempre.
Sul grande ballatoio dal pavimento verde bosco del primo piano si aprivano quattro porte in legno, di cui solo tre erano in noce massiccio e lavorate: la prima a sinistra dava accesso a due stanze affacciate sul Largo Plebiscito, la seconda all'appartamento di zia Bianca; la terza porta, un po' più umile, a quello della nonna Marietta. La quarta conduceva al salotto rosso e verde in stile liberty, al quale venivano ammessi soltanto gli ospiti di riguardo. Quella porta evitava di farli passare per la camera matrimoniale dei nonni.
Un'altra scala di minor pregio conduceva alle soffitte e alla terrazze, che furono quartier generale dei giochi di noi nipoti, alloggio per gatti prolifici e generazioni di polli, che la nonna si ostinava ad allevare per avere uova sempre fresche e galletti da sacrificare in occasione della sua festa, quella dell'Assunta, il pagano Ferragosto di tutti i comuni mortali miscredenti.
Al piano terra, sul Largo Plebiscito s'affacciava l'ingresso della cantina del nonno, che produceva vino in buona quantità, tanto da essere venduto per dare corpo e grado alcolico ai deboli vini trentini e alto-atesini.
Oltre a contenere enormi botti di rovere - da bambino non capivo come le avessero fatte entrare attraverso quell'angusto accesso - la cantina era un susseguirsi ipogeo di volte a botte o a vela, di archi in pietra e di muri divisori di dimensioni ciclopiche, almeno alla mia vista di bambino, di stretti passaggi in celle appena illuminate da lampade fioche e coperte di ragnatele.
Era inoltre la sede della Società produttrice di vino, i cui membri sostavano regolarmente davanti all'ingresso dell'antro, seduti spesso a cavalcioni su scomodissime sedie a discutere, ad architettare come evadere i dazi e a discutere sommessamente sulle strategie di produzione e vendita del vino.
Erano il nonno Luigi, immancabilmente vestito di grigio, il ridicolo signor "Cappelluccio", così chiamato dalla nonna per il cappello troppo piccolo portato sulle ventitré, e l'ineffabile "Ragioniere", scapolo silenzioso, impenitente e compulsivo fumatore di sigarette, con lo sguardo regolarmente assorto e l'aria assente dietro volute di fumo azzurrino.
Al piano terra, dal lato che dava sulla piazza principale e guardava verso la statua bronzea di Matteo Renato Imbriani - uomo politico di grande spessore e oggetto di rispetto, se non di vera e propria devozione popolare per aver fatto arrivare l'acqua potabile alla nostra assetata terra di pietra - si aprivano due locali.
Adibiti per un certo tempo a sede di riunioni semi-sediziose di professionisti e imprenditori scontenti del Duce e del suo regime, radicali anarcoidi tutti amici del mio bisnonno Batù, Luigi Debenedictis detto Verdone, che non si riconoscevano nelle ideologie e nei metodi di Mussolini e dei suoi successori, venne loro cambiata destinazione nel primo dopoguerra.
Con la tragedia del rifugiati dell'Istria e della Dalmazia la nonna Marietta decise che proprio in quei locali avrebbe accolto parte di una umanità in fuga, dolente e disperata, ammalata di scabbia, di povertà e di fame.
Poi, andati via gli istriani, guariti dalla scabbia il nonno Luigi ed io, venne deciso di affittare i due ambienti a Peppino il Reduce. Così si chiamavano allora quanti erano tornati vivi dai vari e disastrosi fronti delle due guerre mondiali.
Peppino il reduce era figlio di mest' Catall, maestro Cataldo, il barbiere che teneva bottega subito al di là del vicolo, nello stesso palazzo abitato all'ultimo piano dalla mia nonna paterna Riccardina Quinto e occupato a piano terra dalla Camera del Lavoro. Il barbiere era educato ed ossequioso nel suo ruolo ufficiale di tonsore di famiglia.
Il posto della bottega era tutt'altro che tranquillo, con gli altoparlanti che da mattina a sera dedicavano ad alto volume tutti i temi musicali della Sinistra - dall'Internazionale socialista alle canzoni dei partigiani - all'intera comunità di passaggio e ad abituali drappelli di poveri pensionati, quasi tutti sordi, e di disoccupati. In quell'angolo di piazza, tra la Camera del lavoro, la bottega del barbiere e un ammattonato ombreggiato da fitti lecci, "la mattunell" , si raccoglieva ogni mattina un gruppo di uomini anziani male in arnese e interessati alle notizie dell'Unità, il quotidiano più venduto, la cui lettura per incolpevole ignoranza era affidata all'erudito di turno, a uno "studiato", che non solo leggeva, ma si premurava anche di spiegare nel suo vernacolo e con toni da palcoscenico i fatti del Paese Italia a quell'accolita di analfabeti intenti ad annuire gravemente e a fumare al contrario il loro mezzo sigaro toscano.
Ma quello era un luogo speciale anche per un altro motivo.
Davanti alla Camera del Lavoro e alla bottega di Figaro tutti gli anni veniva costruita la "macchina di S. Cataldo" in occasione della festa patronale. La costruzione, un'alta e robusta impalcatura in legno, aveva la pretesa di rappresentare in dimensioni molto ridotte la facciata di una chiesa in stile vagamente romanico-gotico, al centro della quale veniva ricavata una grande nicchia, ove alloggiava per ben due settimane la statua del Santo, accecato dal sole impietoso delle controre e dei meriggi agostani, surriscaldato da una miriade di lampadine di notte, paludato di sete e ori, col petto decorato da banconote, assordato dalle incessanti musiche dell'orgoglio comunista. Queste ultime, per l'occasione facevano ostinata concorrenza alle musichette capitaliste diffuse dalle giostre e alla musica classica suonata dalle tante orchestre dei paesi pugliesi, che si alternavano in occasione della festa sull'atipica cassarmonica di Piazza Plebiscito - fissa e con base ottagonale in marmo, a differenza di quella classica tutta in legno e munita di cupola, che veniva eretta ogni anno per l'occasione di fronte alla chiesa dell'Incoronata e davanti alla casa di Teresa Arbore -, denominata, chi lo sa per quale misterioso motivo, "jazz bann" e che, a mia memoria, mai venne calcata da gruppi musicali jazz.
Così le note de Il sol dell'avvenir interferivano in dissonanti cacofonie con quelle di Luna Rossa del divo Claudio Villa e con le altre più nobili dei preludi di Verdi e di Puccini.
Ho sempre pensato che il Santo, a furia di subire da mattina a sera il martirio dell'altoparlante della Camera del Lavoro, si fosse convertito per disperazione anche lui al pensiero di Marx e di Lenin.
L'opera di proselitismo non riuscì con la povera zia Dorina - mamma di Luigi, Domenico ed Elisa Patruno -, confinata semi moribonda nella stanza matrimoniale dei nonni dopo aver partorito Mariella proprio ad Agosto, e costretta per tanti giorni a sopportare l'arroganza di chi, di abbassare il volume di tutte le musiche sacre e profane, non ne volle mai sapere.
Peppino il reduce, dunque, aveva intuito che quel posto - oggi si direbbe location - era proprio indicato per aprire un bar gelateria, intanto perché poteva usufruire di un vasto plateatico all'ombra dei fitti lecci, ma anche perché di sabato intorno alla statua di Imbriani e su quel lungo tratto di stradone, che va da Piazza Plebiscito a Piazza Garibaldi, si snodava il chiassoso mercato con un centinaio di bancarelle di generi vari, dal vestiario usato ai casalinghi, ai cesti di canna e ulivo intrecciati, ai lavori artigianali di costruttori di ramiere, tortiere, "amui" di latta, amule per l'olio.
Così i nonni cedettero alle insistenze di quel bravo ragazzo e di suo padre, che si era comportato sempre da onesto barbiere nel curare le capigliature di tutti i maschi della nostra famiglia, senza lesinare ossequi, inchini, ringraziamenti e piccoli omaggi, come quei calendarietti tascabili profumati di borotalco scadente con le figure stilizzate di donnine seminude da distribuire a Natale ai clienti più affezionati e di riguardo.
I lavori interni vennero fatti, si dovettero scavare passaggi di oltre tre metri nei possenti muri per mettere in comunicazione i due ambienti, ma alla fine la gelateria prese corpo, con grande gioia di noi ragazzi e della nonna, che di gelato e di granite di caffè era golosa.
Così, Peppino il Reduce, vuoi per la sua abilità nel menar la paletta nel bidone rotante carico di felicità fattasi crema gelata, vuoi per la fortunata posizione della bottega, si affermò rapidamente senza neppure immaginare che - un giorno non proprio lontano - al posto della sua gelateria sarebbe nata una banca, che di dolcezze non ne avrebbe distribuite. Forse, solo qualche bavoso avaro si sarebbe accontentato di leccare in solitudine sporche banconote al posto di cremosi gelati.
Largo Plebiscito era famoso anche per certi riti che vi si svolgevano durante la Settimana Santa. La chiesa di San Giuseppe ospitava - con un certo orgoglio della nonna e dei vari parroci succedutisi nel tempo - le statue della Via Crucis e quella della Madonna Addolorata, oltre che di San Giuseppe.
Quando le statue di altezza naturale uscivano dalla chiesa la sera del Venerdì santo, portate a spalla da robusti appartenenti alla Confraternita di San Giuseppe, una folla muta e commossa faceva ala sul Largo Plebiscito e nell'adiacente piazza Simon Bolivar, accodandosi in processione ai traballanti simulacri della passione e della morte del Redentore. Alla straziante processione in lento movimento sulle note della marcia funebre partecipava da ultima anche la statua della Madonna Addolorata.
All'uscita dei simulacri e al loro ritorno noi, adulti e ragazzi, muti assistevamo alla scena dai balconi di casa che davano su Largo Plebiscito.
La Madonna Addolorata, che usciva dalla chiesa di S. Giuseppe alla disperata ricerca del figlio Gesù e ancor più disperata vi ritornava, aveva un pugnale trafitto nel cuore e povere catenine, orecchini, braccialetti appuntati sulla veste nera. La gente seguiva per ore la dolente e pallida Madre, pregando e piangendo. Molti l'accompagnavano nella straziante ricerca scalzi e con i piedi sanguinanti.
Per le strade e le stradine di Corato, dove ogni famiglia custodiva - specialmente ai piani bassi - le proprie disgrazie, ci si inginocchiava e si piangevano con la madre di Gesù i figli strappati alla vita dalla guerra o dalle malattie, la miseria, la sfortuna.
Le scene più impressionanti si susseguivano al rientro della Madonna in chiesa. Quando la statua superava il sagrato e i pesanti, alti cancelli di ferro si chiudevano alle sue spalle con quella fila di pesanti sbarre a forma di puntute e insormontabili lance, molte decine di donne si aggrappavano urlando a quei ferri, urlavano preghiere e laceranti invocazioni, versavano lacrime, chiedevano una grazia, strappandosi i capelli per la disperazione.
I pianti e le urla in quel formicaio di vesti nere, di dolore e di isteria duravano a lungo, facevano parte di un film, che si ripeteva puntuale ad ogni Settimana Santa, e si spegnevano piano piano nella notte dei miracoli che non giungevano mai.
Su Largo Plebiscito, però, non si piangeva solamente. D'estate noi ragazzi giocavamo a t'pplecchie, altrove chiamato più nobilmente saltapicchio, o alla campana; si mangiavano i gelati del Reduce seduti tutti tra il portone della cantina e quello di casa nelle sere d'estate. Da più grandi noi maschi facevamo il gioco dello schiaffo del soldato e spesso al nostro gruppo di cugini dal lato Piarulli-De Benedittis si univano i miei del versante Leo, i nipoti di nonna Riccardina. I padroni però eravamo sempre noi, Peppino, Isabella e Marialuisa Casalino, Riccarda ed io, Domenico, Elisa e Luigi di zia Dora. Mariella arrivò dopo, era piccola al nostro confronto. Mio fratello Ettore partecipava poco. Luigi e Marilù Piarulli venivano soltanto alle feste e non avevano modo e tempo di prendere parte ai nostri giochi dei giorni feriali.
Il nonno Luigi sedeva di giorno accanto alla porta della cantina insieme ai suoi due soci, a scrutare i movimenti dei gabellieri o una nuvola che minacciava pioggia o grandine. Bonario e accomodante per natura, si limitava a ricordare a noi ragazzi che non dovevamo farci male.
Tuttavia, la "regina di Largo Plebiscito" rimaneva la nonna Marietta, animatrice di serene serate estive tra parenti giunti in visita, o terrificante distruttrice di palloni da calcio, quelli scagliati sul grande portone o sulle finestre del piano superiore da coratini "screanzati", impenitenti calciatori nullafacenti che ci spodestavano d'autorità di quello spiazzo.
Uno dei più irriducibili tra loro, dotato della mira migliore nello scagliare il pallone contro le finestre e rompere regolarmente le lastre, era un bel ragazzone atletico e muscoloso, riccio di capelli neri e scuro di pelle. Era il più grande di una famiglia di undici figli alloggiata in uno dei tanti tuguri della Corato Vecchia. Il padre, noto ladro di galline, operava in città e nei paesi vicini, trascorrendo alcuni mesi dell'anno in galera.
Ormai i ladri a Corato non venivano più impiccati. L'ultimo era stato il famigerato "Tianedda", ovvero tegamino, che i Savoia avevano punito con l'esemplare pena capitale. L'esecuzione, a dir della nonna, era stata pubblica e di grande effetto sulla gente.
La nonna rimpiangeva quei bei tempi andati e ripeteva la tremenda profezia - peraltro già avveratasi da tempo - della fantesca del nonno Batù, Coletta (forse sua segreta amante in gioventù), che ammoniva con toni biblici: "Verrà, verrà "la leva canina" e le persone si divoreranno tra loro come cani".
Per la nonna la leva canina era già arrivata con la Seconda guerra mondiale, che le aveva ucciso un figlio, e col suo dopoguerra, allorché ladri, contrabbandieri e furbacchioni avevano dettato legge, spesso impuniti, annunciando tra l'altro un livellamento sociale che a suo dire avrebbe portato soltanto sventure alla gente perbene.
Ebbene, un giorno un giovane e aitante calciatore organizzò l'ennesima partita pirata, con una paio di uagnuni suoi pari del posto, proprio sul piazzale della chiesa, pur sapendo che il pallone, se fosse arrivato su uno dei balconi e a tiro della nonna Marietta, sarebbe stato immediatamente squarciato senza pietà e restituito inservibile. Era la regola.
Zia Bianca era a letto - ammalata o puerpera di Marialuisa, non ricordo bene - quando un fragore di vetri infranti da una pallonata sulla portafinestra della sua camera la fece urlare di terrore. La nonna e noi ragazzi accorremmo nella stanza allarmati. La nonna Marietta non esitò, aprì la finestra e uscì sul balcone con il pallone in mano, verde in volto come un ramarro, e urlò in uno schietto dialetto da popolino: "Mò, uagnà, se lo vuoi il pallone e hai coraggio te lo vieni a prendere aperto come un melone".
Il giovane centravanti non esitò un momento e, svelto come un gatto e agile come un ladro figlio d'arte qual era, si arrampicò lungo una grondaia - la canala - per saltare sul balcone. Ma la nonna fu svelta: mentre lui saliva faticosamente, lei recuperò fulminea un battipanni e quando il malcapitato le giunse a tiro e fece per issarsi sudato e stanco per la fatica, prese a colpirlo sulle mani e sul capo con una tale violenza che il giovane perse l'appiglio e cadde sul piazzale sottostante. Il nonno, che era di sotto, accorse ad accertarsi che il giovanotto non fosse morto o ferito e cominciò a camminare intorno a quel corpo inerte con le mani nei capelli che non aveva.
La nonna non si scompose: squarciò il pallone in modo da renderlo irreparabile e lo scaraventò dabbasso, dove l'acrobata cominciava nel frattempo a dare al nonno rassicuranti segni di vita e a tentare di alzarsi dolorante. I suoi compagni intanto si erano dileguati. Lui si rimise in piedi a fatica e senza un lamento si allontanò zoppicante e malandato, scomparendo sotto le fitte chiome dei lecci della Piazza Plebiscito in direzione della Corato vecchia, mentre il nonno Luigi andava su tutte le furie e profetizzava sventure per quella cattiveria. Che avrebbe detto la gente di quel gesto e che sarebbe accaduto se il ragazzo si fosse fatto male o fosse morto?
Aveva ragione lui, ma la nonna gli oppose un ostinato silenzio dopo aver gravemente sentenziato: "La gente dirà semplicemente che è meglio non venire a giocare al pallone sul Largo Plebiscito, per non prendere botte e per non offendere il povero San Giuseppe. Non c'è più religione".
E così accadde. Come si soleva dire in casa nostra: Fu acqua che sputò u fuoco.
Le soffitte erano regno incontrastato della nonna. Lì c'era un mondo di ricordi, di provviste di legumi in fiaschi, di passata di pomodoro fatta in casa, uva e meloni appesi, cianfrusaglie d'antan e nidiate di gattini, nessun topo. E sul tetto spiovente d'estate riposavano i seccafichi di ulivo e canna intrecciati, con i fichi interi messi a seccare al sole e vassoi di salsa di pomodoro a diventare concentrato per l'inverno, protetti da candide garze.
Sotto le tegole di coccio , " l' rimc", nidificavano ciarliere comunità di passeri e la sommità del tetto era sfiorata dall'alba al tramonto da chiassosi e spericolati rondoni, che solo all'imbrunire lasciavano il posto ai pipistrelli.
In quei torridi locali noi ragazzi costruivamo improbabili aquiloni con listerelle di canna, carta velina, lunghi festoni colorati o catenelle tenuti insieme da una colla fatta di acqua e farina.
Qualche aquilone, col favore del vento amico, talvolta si levava incerto nel cielo e poi prendeva quota piano, vincendo il peso dello spago grossolano che lo teneva unito a noi. Sbandava, riacciuffava il vento, sfiorava pericolosamente le squadriglie di rondini in picchiata, sembrava voler toccare i vaporosi panettoni di nuvole candide che si spingevano alte nell'azzurro della controra. Non ci riusciva: troppo corto il cordone ombelicale che lo teneva unito a noi. Così, reticente e malridotto, tornava piano a noi, tra una raffica e l'altra che gli spettinavano dispettose la coda e le frange. Così, quando non veniva distrutto proprio negli ultimi metri di planata, lo sfortunato mezzo alato tornava mesto alla realtà immobile della nostra terrazza, come un sogno pezzato, come un desiderio mai esaudito.
POLLI A FERRAGOSTO
Lì, in quelle soffitte, la nonna decise di allevare dei polli.
Fece costruire un recinto, sistemò un ricovero in legno e adottò un certo numero di galline con gallo al seguito, che a Pasqua covarono tante uova, dalle quali uscì un nutrito battaglione di pulcini pigolanti bianchi, gialli e neri.
Al nonno non era piaciuto quel capriccio, ma gli veniva regolarmente obiettato che a Ferragosto i galletti per il pranzo dell'Assunta (l'onomastico della nonna Marietta) sarebbero piaciuti a tutti. Galletti di primo canto ripieni, teneri e saporiti, uno a testa per l'abbondanza.
L'impresa funzionò fino al giorno in cui il pranzo di Ferragosto si sarebbe svolto a Trani nella casa di zio Savino, sulla strada per Bisceglie: una bella casetta con giardino, circondata da palme e abbastanza vicina al Lido di Colonna.
I preparativi per il pranzo furono laboriosi, non tanto per la pasta al forno, che era un gioco da ragazzi per la nonna, quanto per i galletti. Il problema fu la conservazione degli animali pronti per la cottura. Faceva caldo e in casa non c'era un solo frigorifero. La difficoltà maggiore non sarebbe consistita nelle molteplici esecuzioni capitali o nella preparazione dei polli farciti, bensì nel loro trasporto fino a Trani con quelle temperature di Agosto.
Il lavoro cominciò tre giorni prima ed io venni arruolato come assistente al boia e spiumatore ufficiale.
La tecnica usata dalla nonna, per consentire ai condannati un trapasso pressoché indolore e un dissanguamento totale, consisteva - secondo una metodica chirurgica da lei adottata - in un delicato ma veloce intervento di tonsillectomia eseguito con maestria sull'animale tenuto da me per le zampe e a testa ferma in giù. A parer suo, niente di più doloroso di ciò che andava tanto di moda a quei tempi con i bambini che si ammalavano di mal di gola: anche a loro venivano regolarmente asportate le tonsille a vivo.
Seguivano la laboriosa spiumatura nell'acqua bollente, l'estrazione dei visceri che sarebbero andati ad arricchire il ripieno - il dindo -, il riempimento e la conservazione delle salme così farcite.
Quell'anno, ultimate le operazioni con qualche giorno di anticipo sulla data della festa, si dovette conservare per forza quel bendidìo al freddo.
Io azzardai: "Nonna, ma dove li mettiamo tutti questi polli, la ghiacciaia è troppo piccola".
E lei: "Stati zitto Luigino, ché non tieni sacchette, (tasche). Mò lo troviamo il sistema, mò lo troviamo… Anzi, scendi abbasso da Peppino il Reduce e fatti dare un pezzo di ghiaccio".
Due giorni dopo, la mattina di Ferragosto la batteria di galletti conciati per la festa era pronta al trasferimento da Corato a Trani. Si partì tardi e i polli viaggiarono in ben due ghiacciaie dalla dubbia tenuta.
Alle 11,00 del mattino il sole picchiava senza pietà e la la cottura dei volatili iniziò già durante il trasporto in macchina. Il ghiaccio si era sciolto e nelle ghiacciaie si avvertiva un sinistro sciabordio.
Giunti che fummo a casa di Zio Savino, la nonna pretese il comando della cucina, spodestò zia Mira e infornò i polli con irrecuperabile ritardo, perché la pasta al forno aveva la precedenza.
Nonni, figli con consorti e nipoti attesero a lungo seduti a tavola in giardino tra il primo e il secondo piatto. Il nonno si fece un pisolino all'ombra di un albero.
Il forno era uno solo, i polli erano tanti e non sapemmo mai come la nonna fosse riuscita a infornarli tutti.
Alla fine di un'estenuante attesa dei commensali, i galletti giunsero in tavola accolti da un'ovazione.
La nonna pretese di provvedere di persona allo sporzionamento e, mentre andava alacremente di trinciapolli, lodava il frutto del suo lavoro iniziato praticamente già Pasqua. Come se le uova di gallina le avesse covate lei…
Ogni commensale ricevette mezzo pollastro a testa col dovuto ripieno di pane, aglio, uova, frattaglie sminuzzate, uvetta, formaggio e prezzemolo; ai più famelici venne proposto un pollo intero e, finalmente, la degustazione iniziò.
Purtroppo, la tragedia si annunciò chiara già ai primi colpi di forchetta e coltello, che misero a nudo una carne cruda, a tratti anche sanguinolenta, mentre un certo odorino si spandeva in giardino. Alcuni rimasero con forchetta e coltello per aria, indecisi sul da farsi, altri misero le posate sui piatti e desistettero dall'impresa; in pochi affrontarono eroicamente il compito di non deludere la nonna. Fui tra quei valorosi volontari. Zio Savino continuò sorridente a conversare con le sorelle e i cognati, come se nulla fosse accaduto. Mia madre aveva l'aria di un cane bastonato e zia Bianca assunse un'espressione immota e dolente, rassegnata alla tragedia incombente. Zia Dorina, santa donna, rise e fece ridere tutti, minimizzando allegramente l'inconveniente.
La nonna di solito non mangiava molto, anzi si nutriva come un uccellino soprattutto quando cucinava, ma quel giorno disse che era stanca e non aveva nessuna voglia di assaggiare quella bontà.
Noi ragazzi seguivamo con apprensione le mosse dei grandi. Poi fu il nonno a parlare con grande meraviglia di tutti:
"Te lo dicevo io che l'allevamento dei polli per Ferragosto sarebbe stata una pazzia. Ed ecco che cosa è successo: polli crudi che puzzano di morto e soldi buttati!"
Un coro di "No, no, che i polli poi sono in fondo buoni ", si levò dalla tavolata. Un gesto pietoso che la nonna commentò trionfante:
"Sei sempre il solito. Hai visto che sono piaciuti a tutti?"
Nel silenzio generale i piatti quasi intatti tornarono in cucina e la maggior parte di quelle delizie tristi e grigiastre fece la fine della pattumiera. Il nonno, scornato ancora una volta, tornò a sonnecchiare sotto una palma e noi ragazzi tacemmo incerti e malinconici. La giornata si era messa male e rischiava di finire peggio, perché da un momento all'altro poteva scatenarsi la solita tempesta di recriminazioni, pianti, tetre profezie e minacce della nonna Marietta.
Fu zia Mira a salvare la festa, come se avesse previsto tutto. Comparve sulla porta della cucina con un sorriso a centottanta gradi, allontanò la minacciosa nuvola di un monologo della nonna amaro, velenoso, aggressivo, già incombente sulla famiglia attonita, e sciolse la delusione di quel pranzo in procinto di finire male, distribuendo le dolcezze annunciate da due meravigliose torte Millefoglie, che le riuscivano sempre in maniera superba, come tutti i suoi dolci.
Tornò l'atmosfera della festa e la nonna accettò di assaggiare il dolce, soltanto perché era il giorno del suo onomastico, lo stesso di Maria Assunta in Cielo.
A me rimase per giorni nel naso il sentore disgustoso dei volatili, del cui inutile sacrificio ero stato attivo complice, e nella testa la frustrazione del clamoroso fallimento di un progetto tanto faticoso, cui avevo preso parte come può fare per amore solo uno schiavo senza diritto di parola e di opinione.
Poi la soffitta tornò in nostro possesso: le pollastre sfuggite alla prima carneficina finirono cotte superbamente al forno; le adulte vennero immolate in brodo un po' per volta, insieme al pluridecorato gallo, dopo aver subito il solito intervento di tonsillectomia indolore.
APPENDICE: La maledizione.
Tanti anni dopo, esattamente nell'ottobre del 1979, mi trovavo a Cracovia. Eravamo tutti amici con le rispettive mogli.
Uno di essi era un frequentatore abituale della città dove aveva molte conoscenze e amicizie, persone di una certa condizione socio-culturale: architetti, ingegneri, professori universitari.
Essere ospitati nelle case di alcuni di loro almeno per una sera fu d'obbligo. A casa di Janos, architetto di buona fama, e della bella moglie Bozena, pittrice, avevamo trascorso una serata memorabile. Eravamo sfuggiti finalmente alla cucina miserabile dei ristoranti polacchi e cenato a base di pasta col sugo rosso di tonno da noi preparato con provviste portate dall'Italia, fermandoci poi anche a dormire nella piccola abitazione di Katowice, arrangiandoci come potevamo con qualche materasso sul pavimento. Dormimmo poco, ma solo a causa dei piccoli terremoti che si succedevano di continuo in seguito alle esplosioni di mine nelle miniere di carbone sottostanti alla città. Ma eravamo giovani.
Poi, anche Richard, ingegnere professore universitario, e sua moglie, professoressa anche lei, ci vollero a cena nella loro casa di Cracovia. Avrebbero cucinato per noi.
Scoprimmo che la coppia abitava con due bambini in una casa popolare piccola, la cucina in comune con la famiglia della porta accanto.
Dovemmo andare a cena ad un orario preciso per non disturbare i vicini, tener basso il nostro tono di voce e cenare seduti alle sedie prese in prestito, tutti pigiati intorno ad un tavolo troppo piccolo per dieci commensali, alla luce fioca di un'unica lampadina. Un clima da coprifuoco.
A quel tempo la Polonia viveva l'ennesimo momento buio della sua storia, dopo quello dell'invasione nazista, e ben presto le rivendicazioni del popolo sarebbero state represse brutalmente dal regime filosovietico del generale Jaruzelski.
La primavera polacca era ancora molto lontana, anche se il Papa Giovanni Paolo II era già sul trono di Pietro ed era deciso a rivedere la sua patria finalmente libera.
I negozi di generi alimentari erano praticamente inesistenti. Qualche rara macelleria esponeva pezzi di carne di maiale dal taglio irriconoscibile e qualche solitario pollo impiccato ai ganci di polverose vetrine spesso troppo grandi per quell'unico cadavere esposto, che le rendeva ancora più tristi e repellenti per chi veniva da una terra di abbondanza e di sprechi come noi.
La gente faceva lunghe file alle porte dei negozi, ma il più delle volte la sfibrante attesa andava delusa: pane, farina, carne, si esaurivano rapidamente e soltanto una generosa mancia convinceva gli addetti alle vendite a tirar fuori gli alimenti, che loro nascondevano appositamente per lucrare sulla fame del popolo schiacciato da un potere cieco ed inetto.
Una volta dovetti dare una mancia anche per acquistare una cartolina e un francobollo!
Funzionava così ovunque, anche nel Suk della piazza centrale di Cracovia: bastava allungare qualche banconota nella mano già aperta delle commesse - tutte dipendenti statali - per veder comparire i migliori tappeti e arazzi, dei quali i polacchi erano maestri.
Ebbene, la cena dall'ingegnere iniziò con un brindisi a base di vodka da bere tutta d'un fiato e continuò con qualche crostino su cui facevano mostra di sé malinconici filetti di aringhe marinate con le cipolle, che le donne della compagnia non degnarono neppure di uno sguardo. Si passò al primo: pasta fatta a mano, spaetzle bolliti e conditi, per nostra fortuna, col parmigiano portato da noi. Il piatto forte sarebbe stato il pollo al forno.
La luce sul tavolo era fioca, mangiavamo in ombra sotto quell'unica lampadina sospesa sopra di noi, nuda e polverosa, ma io avvertii e riconobbi immediatamente un odore indimenticabile, lo stesso di tanti anni prima. La carne del quarto di pollo nel mio piatto era striminzita e sotto la pelle giallastra si scopriva un colore rosso violaceo, maleodorante, il sangue.
Ci dissero che il forno non funzionava tanto bene perché non c'era sufficiente tensione sulla rete elettrica.
Cominciò così la mia pena, la fronte mi si imperlò di sudore, del mio pallore per fortuna non si accorse nessuno grazie alla semioscurità, una nausea incoercibile mi pervase. Stavo pagando antichi peccati
Dissi che ero allergico alla carne di pollo. Quel che dissero e fecero gli altri non lo ricordo, ma il pretesto addotto da me non poteva funzionare. Mi salvarono dal malessere e dagli scrupoli due bicchierini di vodka ingollati uno dietro l'altro, mentre i padroni di casa mangiavano avidamente e si rammaricavano per la mia allergia.
Sentivo le voci, ma non seguivo la conversazione che si svolgeva stanca in inglese.
Mi isolai in un mutismo doloroso e davanti a me scorsero le immagini di quel pranzo di Ferragosto in casa di zio Savino a Trani, il nonno appisolato sotto un albero, la nonna accaldata e armata di trinciapolli, una schiera di lividi pollastri in fondo meno malinconici di quello che avevo nel piatto polacco.
Si era trattato però di una situazione diversa. La nonna, infatti, era stata imprevidente e tradita dalla preparazione di una quantità eccessiva di volatili, dalla difficoltà di conservarli in buono stato e da quella di cucinarli tutti insieme a dovere; dall'abbondanza, dunque, non certo dalla miseria. Io le ero stato ineffabile complice.
Richard e la moglie, invece, erano innocenti: avevano speso una fortuna per offrirci una cena a base di quella carne in via di putrefazione, dissanguata male e cotta peggio, pagata a caro prezzo. Una brutta figura ed uno scorno salato.
Ma il risultato dei due episodi in fondo, per quanto mi riguardava, era stato identico.
Trascorsi molti anni dall'esperienza polacca, facemmo un viaggio in Austria con i soliti amici e le rispettive mogli. Alloggiavamo In un albergo sul Woerthersee, nei pressi di Klagenfurth e Villach, esattamente nella ridente cittadina di Maria Woerth affacciata sul lago.
Un giorno si decise di trascorrere un pomeriggio al Casinò di Villach.
I Casinò, anche i più belli, come quello di Ca' Vendramin Calergi a Venezia, mi hanno sempre dato una sensazione di disagio. Quello di Villach, poi, oltre ad essere frequentato da una umanità più dozzinale e rumorosa dei Casinò, ai quali ci hanno abituati la filmografia del XX° Secolo e i vari 007, mi annoiava, visto che non giocavo, avendo perso rapidamente la modestissima somma che avevo deciso di rischiare. Mi era venuta anche una fame da lupo: a mezzogiorno avevo mangiato in piedi una insalatina verde con qualche gamberetto bollito al Nordsee di Klagenfurth.
Finalmente, gli amici, perso il denaro che avevano programmato di perdere, decisero che alle otto di sera avremmo dovuto assolutamente andare a cena a Villach, dove uno di loro - un abitudinario ossessivo, abituato a cenare a quell'ora e non oltre - sapeva di un famoso ristorante in cui si servivano solo polli. Mi sembra si chiamasse Il Regno del Pollo.
Il locale era strapieno e dovemmo attendere pazientemente il nostro turno per circa un'ora. Infine ci venne servito il piatto della casa: Pollo arrosto con patate. Ordine unico per tutti, tanto per non infastidire i camerieri austriaci un poco scostanti con noi italici.
Attaccammo famelici il nostro quarto di pollo di dimensioni non propriamente adatte a un Regno e cominciammo a guardarci l'un l'altro con inequivocabili espressioni di disgusto.
Anche in quel Regno i polli erano stati serviti mal cotti, sanguinolenti e puzzolenti di mangime, fortemente sospettabili di una cattiva conservazione. Ciononostante le nostre rimostranze da soliti e inguaribili nostalgici della cucina di casa nostra non vennero affatto apprezzate dai camerieri. Ci sfamammo con delle patate fredde e bisunte.
Conclusi che gli austriaci, come il loro diabolico connazionale Hitler, molto probabilmente disdegnavano di praticare la sechita, la macellazione secondo le regole kosher, che deve assicurare per gli ebrei il completo dissanguamento degli animali destinati al consumo alimentare. Certi peccati è sempre meglio rimuoverli.
Anche in quell'occasione la nonna Marietta, già passata a miglior vita, e i suoi polli di Ferragosto, festa dell'Assunta, mi vennero in mente e ne rimasi profondamente sconcertato.
Quando si dice la coincidenza: la cittadina di Maria Woerth era famosa proprio per il suo Santuario di Maria Assunta in cielo.
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PS. Nonostante gli innumerevoli controlli, credo che possiate trovare refusi ed errori di ortografia o di punteggiatura, e non solo. Come disse Giovanni Paolo II e come forse vi ho già scritto in altra occasione, in tal caso "mi corrigerete".
A causa di certi contenuti di scene cruente o disgustose, si consiglia la lettura del presente racconto alla presenza di uno o più adulti in grado di rianimare in caso di malore.
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