Viaggio Roma-Bari 2^ parte -

Viaggio Roma-Bari (2°parte)

Autopsia di un tradimento

Cessato quel breve trambusto, la compagna di viaggio alla mia destra crollò a sua volta inaspettatamente col capo e la sua lunga chioma bionda sulla mia spalla, facendo cadere la mano sinistra quasi a contatto con la mia coscia e lasciandomi in uno stato di incredula attesa. Qualche goccia di sudore mi si affacciò sulla fronte e il cuore prese a battere più veloce. Mi mancò il coraggio di fingere con me stesso che nulla fosse accaduto e decisi di capire, abbandonando ogni ingenua reticenza. Più lento di un bradipo, spostai di pochissimo la mia mano destra quasi a raggiungere e a sfiorare quella tanto prossima e immota appendice muliebre.
Ho sempre considerato le mani un formidabile mezzo di comunicazione tra gli esseri umani. Del resto, la mano è estesamente rappresentata nella corteccia cerebrale, prevalendo di gran lunga insuperata sull'analoga proiezione di molte altre parti del corpo; riceve e trasmette, è dotata di una ricca sensibilità a tutti gli stimoli tattili, pressori, dolorifici e termici.
Le mani sanno parlare linguaggi comprensibili a tutti, compresi i ciechi e i sordi, e un loro semplice contatto tra soggetti di sesso opposto - in molti casi anche di identico sesso - può causare reazioni intense, dal timore al piacere, dalla perplessità alla speranza, curiosità, ribrezzo, rabbia o fiducia, e attivare più intensamente dei cinque sensi l'immaginazione, il desiderio o la repulsione.
L'imperscrutabile magia di un semplice sfioramento può scatenare l'aumento della frequenza cardiaca, sudorazione, difficoltà di respiro, persino stati d'ansia e, nei soggetti più sensibili, incontrollabili modificazioni in lontane aree bersaglio. Una fra tante: il cuore.
Stupefacenti sono gli effetti sedativi, da ricondursi per lo più al tocco della mano materna; inimmaginabile l'eccitazione di fantasie più o meno innocenti; fastidiose, soprattutto nelle giornate fredde e secche, le dolorose scariche di elettricità elettrostatica a contatto con l'acqua o con oggetti metallici, ma anche con i corpi e gli abiti altrui e persino con i propri.
Le mani nella pittura e nella scultura di tutti i tempi sono protagoniste quanto i volti e trasferiscono energia persino dalle tele su cui sono rimaste impresse o dalle fattezze marmoree di celebri statue.
Sospeso in un limbo di declinante indecisione e di crescente curiosità, respirando appena, quel tanto sufficiente a mantenermi in vita, tenevo gli occhi appena socchiusi per sorprendere lo sguardo della suora dirimpettaia mentre dardeggiava nell'incerta luce e rimbalzava, severo e curioso insieme, dalla consorella al mio fianco fino a me e, infine, alla mia giovane vicina abbandonata sulla mia spalla.
Mi sentii sfacciatamente spiato e condannato senza possibilità di appello alle pene dell'inferno, di certo nel girone dantesco dei lussuriosi. Mi consolai dicendomi che lì avrei trovato bella compagnia e vento, tanto vento, proprio quello che mi mancava in quella torrida gabbia.
Mi sentivo prigioniero, incastrato tra due femmine che a turno avevano violato, anche se non di proposito, il mio spazio vitale e messo alla prova la mia promessa di fedeltà a un'altra donna.
Mi investiva intanto un certo sentore di salsedine, di sabbia e di mare che esalava dalla bella addormentata, quando la mano di lei compì un minimo, improvviso spostamento laterale e raggiunse la mia, sfiorandola appena. Ero di pietra, in preda a fugaci vertigini. Se si fosse stato trattato di un movimento inconsulto e involontario non mi sarebbe restato che calmarmi e attendere.
Intanto, l'odore di rena e di aria marina, davvero insolito in un affollato e rovente scompartimento di seconda classe, già mi procurava una leggera ebbrezza, mentre ad occhi chiusi immaginavo atmosfere balneari e quel corpo femminile disteso al sole sul bagnasciuga. Decisi che il caldo soffocante e la prospettiva della pena infernale non sarebbero riusciti a rendermi insensibile a quella presenza tanto ravvicinata. Così mi assolsi, convincendomi che per quella volta sarebbe stato inutile opporsi ai capricci del caso, ché forse tutto rientrava in un insondabile disegno cosmico indipendente dalla mia volontà, al quale non mi restava che arrendermi senza ulteriori indugi o incertezze.
Mentre proseguivo nella mia ipocrita ricerca di intime, ma ancora
deboli giustificazioni, avvertii una seconda, leggera, delicata pressione, che diradò le confuse e incerte motivazioni della mia sentenza autoassolutoria e mi consentì di riprendere a respirare. Nel frattempo una improvvisa vampata di calore arroventava l'atmosfera subito alla mia destra.
Forse sta sognando, pensai. Tuttavia, tanto per non sembrare scortese e indifferente a ciò che poteva essere nient'altro che un timido messaggio di pace o di fiducia, in attesa di una risposta più decifrabile mi adeguai di buon grado ai voleri del fato e ricambiai con sofferta prudenza il dono di quel tocco, muovendo appena le mie dita.
Attesi. Dopo pochi secondi, avvertii uno sfioramento più deciso e ripetuto con paziente e discreta insistenza. Non aveva affatto le caratteristiche di un movimento involontario, come quelli che capitano nel sonno, e neppure un gesto di repulsione. Tuttavia, in un ultimo strenuo sforzo interpretativo di quella serie di micro-eventi (probabilmente insignificanti, se occorsi in una diversa situazione) volli ancora pensare che lei stesse inseguendo un sogno, quello di essere in viaggio accanto al suo fidanzato.
Più ci pensavo, però, e più si radicava in me la più gradevole ipotesi che si fosse trattato di una deliberata e complice risposta alla mia provocazione.
Allora mi feci coraggio e, col favore dell'incerta luce, coprii dolcemente quella delicata estremità con la mia mano, avvertendone l'immediata reazione: un misurato e ripetuto movimento delle dita, cui ne seguì uno più ampio, quasi di rassicurazione, fino all'intrico con le mie, definitivo segno dell'inequivocabile e reciproca capitolazione.
Gli effetti si fecero sentire immediati sul mio stomaco, moltiplicando il senso di vuoto prodotto dal protratto digiuno. Poi, la mano infierì sulla mia con una stretta intensa, quasi dolorosa, mentre i nostri respiri si facevano più frequenti.
Ringraziai madre natura per non avermi inflitto la tremenda pena delle mani sudate ad ogni emozione e continuai a ubriacarmi di quel profumo del mare e del tormentato amplesso delle nostre dita impazzite.
-Vado, sussurrai fra quei capelli.
Con un lieve sospiro, senz'altro aggiungere, mi liberai lentamente della stretta. Sarei uscito a percorrere il corridoio invaso da corpi e da bagagli, ad attendere gli eventi, a interrogare la giostra della fortuna e a cercare di capire come sarebbe finita quella deliziosa conoscenza appena epidermica.
Mi levai come assonnato, scostando dalla mia spalla con studiata cautela l'immobile testa dalla lunga chioma bionda, che non oppose alcuna resistenza al mio gesto e si lasciò guidare verso il poggiatesta verso la porta dello scompartimento, come quella di una persona immersa in un sonno troppo profondo per accennare una qualsiasi reazione.
Libero, uscii circospetto nel corridoio e barcollai pericolosamente fino in fondo al vagone. Lì, appoggiato alla parete di fronte alla porta del gabinetto, mi accesi una sigaretta.
L'ansia premeva sul petto: lei mi avrebbe raggiunto, dando un seguito, un senso a quella inattesa e così esplicita promessa delle mani, o si era trattato di una mia allucinazione scatenata dal caldo e dalla fame?
Fumavo nervosamente la mia seconda sigaretta di fronte alla porta del bagno, quando la vidi avanzare incerta, scavalcare l'umanità sonnolenta padrona del pavimento e guardare lontano davanti a per individuarmi tra nebbie di vapore e di fumo di tabacco. Mi scorse e continuò a dirigersi verso di me piano, quasi con indifferenza, gli occhi bassi.
Giuntami accanto, per prima cosa cercò ancora la mia mano destra in silenzio e, come una sonnambula, senza parlare si lasciò guidare verso il successivo vagone, quello di coda, fino alla piattaforma affacciata direttamente sulle rotaie, dove lo sferragliare delle ruote avrebbe coperto le voci degli altri, i suoni, le parole che subito non dicemmo, perché tra scossoni e sbandamenti preferimmo abbracciarci e le nostre labbra presto si conobbero, si trovarono, prima piano, esitanti, poi si sfiorarono a lungo delicatamente, per arrendersi infine alla ineluttabilità di un bacio.
La luce e il rumore non filtravano attraverso l'atmosfera spessa di estraneità al mondo esterno, che ci isolava e ci proteggeva. Le prime parole servirono appena a dirci i nostri nomi: non avemmo bisogno d'altro per un tempo che ambedue sperammo non finisse mai.
- Ma tu chi sei?, mi disse a un tratto guardandomi dritto negli occhi.
E' da quando siamo partiti che mi chiedo perché sei entrato nel nostro scompartimento invece di andare a cercarti un altro posto.
Eppure, non ho temuto la tua vicinanza, ho tremato al solo pensiero che te ne andassi. Per di più quell'arpia vestita da monaca si era messa a fissarmi, a scrutarmi. Forse si aspettava di assistere a chissà quale scandaloso spettacolo. Poi, pian piano, mi sono scoperta a non interessarmi più a ciò che avrebbe pensato quella matta e a incuriosirmi sempre più di te, accantonando ogni scrupolo. In fondo, nonostante l'apparente indifferenza, tu mi sei subito apparso simpatico con la tua aria dinoccolata, i modi gentili e distaccati - come se non ti interessassi affatto a me -, l'aspetto strapazzato. La rabbia è sbollita, mio padre dormiva saporitamente come fa al solito in treno e io mi sono sentita sola, ma libera.
E così ho cominciato a fantasticare. Che sarebbe successo se mi fossi appoggiata per un po' alla tua spalla, fingendo di dormire? Eravamo così vicini, io sentivo il tuo odore di tabacco e tu avresti avvertito di certo quello della sabbia che d'estate mi porto sempre addosso, ma che io ormai non avverto quasi più. Mia madre dice che le ricorda il mare d'inverno. Mi sono chiesta che effetto avrebbe fatto su di te, se saresti fuggito o se ti sarebbe piaciuto.
- Chi ha sfiorato per primo? Confessa, chiesi io ridendo piano e affondando il volto e le mani tra i lunghi capelli.
Credo di avere avuto il tuo stesso pensiero e di non aver saputo resistere al desiderio di toccarti la mano. Speravo che tu mi avresti risposto. Nonostante il caldo insopportabile, un brivido mi ha attraversato da capo a piedi e ho soffocato i miei respiri. Non lo nego: ho ceduto al desiderio che in quel lieve contatto tu leggessi la mia promessa di un treno di tenerezze.
Ho atteso che quella promessa mi fosse restituita ed è successo il miracolo quando hai risposto al messaggio con i fremiti della tua mano.
Mi resi subito conto che stavo sfoggiando una sorta di repertorio da patetico e noioso cascamorto o da venditore di enciclopedie porta a porta, qual ero stato per davvero da qualche mese, quando lei mi ridusse al silenzio con un altro rassicurante bacio.
Escogitammo un ingenuo piano di rientro nello scompartimento senza destare sospetti: sarebbe rientrata solo lei, vi si sarebbe fermata per alcuni minuti e avrebbe detto al padre di voler rimanere fuori in corridoio, perché al chiuso le mancava l'aria.
Lei andò e io, se lei non fosse più tornata, sarei rimasto in fondo al vagone a fumare una sigaretta dietro l'altra e a masticare amaro.
Salvina tornò dopo dieci interminabili minuti.
Ogni tanto si staccava da me per andare a controllare che il papà dormisse e a rassicurarlo nel caso fosse sveglio. Tornava presto tra le mie braccia e con un sorriso mi diceva che lui ronfava come un micione col cappello sugli occhi, mentre la tigre cappelluta accanto a lui non chiudeva occhio.
Nel frattempo, i monti, i presepi dei paesi dell'Appennino con le loro processioni di luci stradali si allontanavano da noi mentre li spiavamo dal lurido vetro della porta in fondo al treno. Le gallerie - tante in successione - erano nostre complici: ogni volta ci trovavano stretti l'uno all'altra. Gli unici disturbatori della nostra intimità felice erano quanti si ostinavano ad entrare e ad uscire dal bagno.
I nostri sguardi, incuranti di tutto e di tutti, tra un abbraccio e l'altro seguivano inquieti le rotaie appena illuminate dalle luci di coda. A quelle parallele in fuga affidavamo parole scomposte e liquide, confusi messaggi sonori, di cui non avevamo più bisogno per capirci.
Le mie dita cercavano il viso di lei e poi si immergevano tra i suoi capelli; le mani scorrevano lungo il collo e l'incavo della schiena in una unica e ininterrotta carezza sopra quei vestiti leggeri appena umidi di sudore; le sue seguivano curiose l'arco delle mie le sopracciglia e gli zigomi, le labbra, il mento, come a voler imprimere nella memoria tattile i contorni del mio profilo.
Quando lei schiudeva le palpebre mi perdevo nei suoi occhi color miele di castagno, grandi, di taglio vagamente orientale, che mandavano sincopati e piccoli lampi al passaggio veloce del treno lungo le stazioni minori, o riflettevano le tante deboli e tremule luci adagiate come lucciole lungo le vallate.
Poi riaffondavo il viso tra i suoi capelli, tornando a ubriacarmi del profumo di salsedine, di sabbia, di mare.
Avevamo, allora, lei appena diciotto anni e io ventitré; la sua apparente fragilità sembrava implorare protezione tra le mie braccia robuste. Salvina accondiscendeva alle mie carezze e me le negava quando si facevano appena più ardite.
- No, mi diceva, no… Sono confusa, mi scopro felice tra le tue braccia e non so neppure come ho fatto ad arrivarci. Ti ho tentato, tu hai risposto, io ho resistito per un poco, poi non ce l'ho più fatta, ma non sapevo come fare a comunicare. E adesso mi sento come in paradiso e non avverto colpe, né rimpianti; soffro soltanto al pensiero del nostro prossimo distacco. Tu tra poche ore tornerai alla tua famiglia, alla tua fidanzata, perché una fidanzata ce la devi avere, e forse ne hai più d'una, mentre io resterò quasi prigioniera in casa dei miei parenti di Modugno per tanti giorni, a pensare a te. Non so se e dove riusciremo a vederci. Sai, la mentalità…, mi toccherebbe discutere col papà. E' tanto caro, ma è pugliese come te ed è geloso di me e di mamma. E poi finirà che ti scordi di me. Dimmi che non è vero.
Io la rassicuravo, raccontandole chi ero, che studiavo medicina -
quasi che fosse affidabile garanzia della mia onestà -, che lei era piombata nella mia vita senza preavviso, come un terremoto dell'anima e del corpo, e che non avevo saputo rinunciare al desiderio di conoscerla. Era vero, avevo una fidanzata, una sola però, e non avrei mai immaginato di poter rimanere fulminato da un'altra donna.
Dovevamo fare di tutto per rivederci, per stare ancora insieme, anche se nessuno di noi due sapeva come fare.
Lei protestava con aria mesta che non l'avrebbero mai lasciata venire in città da sola. Un'idea sembrò illuminarle il volto per un attimo, spianando due increspature di contrarietà tra le sopracciglia: forse, una cugina più grande avrebbe potuto accompagnarla: di lei sarebbero fidati. Ma le sembrava tutto così difficile.
Poi venne il tempo delle lacrime, le sue, che mi bagnavano le guance. Lei mi passava una mano sul viso per asciugarle, ma io la fermavo e le dicevo di lasciarle lì quelle gocce salate, ché le avrei portate con me, così non sarebbero andate perdute.
Parlando, uno sulla bocca dell'altra, ci rassegnammo ad avvertire impotenti il nostro reciproco desiderio nascere e morire di sete e di fame, del tutto insoddisfatto. Il muto linguaggio dei corpi non era più un segreto e le parole non avevano più senso: forse sembrò ad ambedue che consumassero troppo in fretta il tempo a nostra disposizione.
Le ore e i monti corsero veloci più del treno; il cielo notturno andò perdendo qua e le stelle, mentre il suo blu profondo sfumava verso un un vago chiarore, annunciando un'alba che ci avrebbe ancora trovati insonni e mai sazi di carezze appena un po' meno che caste, avvinti in abbracci sempre più rassegnati, divisi da interminabili silenzi, instabili ed ebbri su quella rumorosa ed insicura piattaforma.
La prima luce filtrò grigia attraverso i vetri sporchi dei finestrini, ci slegò, diradò le carezze e le rese più tenere, tolse insistenza ai nostri baci, placò il bruciore delle nostre labbra e delle guance, lasciò che un velo di sudore si asciugasse sulla nostra pelle e portò con il concreto timore che avremmo potuto non rivederci più.
Intanto gli ulivi di Puglia sfilavano scuri nel cielo più terso e appena dipinto dall'aurora sul mare di Levante, in attesa che il sole sorgesse di lì a poco con la puntualità di un orologio di precisione, senza alcuna compassione per noi.
Ci rimanevano alcuni scampoli di tenerezza e di reciproco abbandono, un'ora o poco più ci separava dalla nostra destinazione. Le fermate del convoglio si facevano sempre più frequenti alle stazioni delle bianche città della costa pugliese, trasformando quel treno direttissimo in un provvidenziale accelerato, stiracchiando il tempo a nostra disposizione e allontanando il distacco, l'addio, anche se di poco. Fu un'illusione però, perché gli ultimi chilometri il convoglio li percorse velocissimo, annullando ogni ritardo e deludendo le nostre speranze di rinviare l'inevitabile commiato.
La gente affollava ormai il corridoio; alle fermate alcuni salivano
senza bagaglio, altri scendevano con le loro pesanti valigie. Non c'era più spazio, né tempo, né intimità per i nostri baci. I nostri corpi erano lontani quel tanto che la decenza esigeva, esitanti in mezzo al ribollente torrente di viaggiatori pronti a scendere.
Tenendoci per mano, tornammo a fatica allo scompartimento e vi entrammo, uno per volta, con aria indifferente, come se nulla fosse accaduto.
Del resto, cos'altro era successo, se non un appassionato e del tutto fortuito isolamento dal mondo, un fulmineo viaggio interplanetario, una vertigine, una folata di sensazioni reali e di desideri insoddisfatti fatti esplodere da un semplice sfioramento, da un contatto benedetto tra le nostre mani? E poi baci e carezze, a suggello di un amore tanto improvviso, quanto attonito e silenzioso, forse effimero, nato nel fragore di un treno in corsa e con quello destinato a concludersi in uno splendido mattino di fine estate sulla banchina di una stazione ferroviaria in rapido avvicinamento.
Ma erano state proprio un nulla quelle ore di languori, di sguardi, di lacrime, di carezze? Un temporale violento e dolce insieme si era abbattuto su di noi, costringendoci a cercare rifugio l'una tra le braccia dell'altro; un vento che aveva sradicato dalle nostre menti impegni, doveri, reticenze, prudenza e affetti per chiunque.
Il papà sonnecchiava ancora. Presi dalla mia tasca il biglietto ferroviario orma inutile, vi scarabocchiai il numero telefonico e l'indirizzo di casa mia e lo racchiusi furtivo nel palmo della mano di Salvina aperta e protesa verso di me in un gesto di cortese e asettico saluto, che temetti potesse essere letto dal padre diversamente da un educato gesto di commiato. Volli fugare ogni dubbio dell'uomo e, come spesso mi era accaduto di fare in altre occasioni con altri compagni di viaggio o con persone anziane, mi caricai con disinvoltura parte dei loro pesanti bagagli, li aiutai premurosamente a scendere per la ripida e insidiosa scaletta. Poi, dopo aver guardato Salvina per l'ultima volta negli occhi, mi dileguai rapido tra la gente, diretto all'uscita centrale col cuore gettato alla rinfusa con tutti i suoi palpiti nella mia povera valigetta.
***
Il trio di farfallone, nel frattempo, era rimasto sul treno. Erano dirette a Lecce, forse anche loro con un macigno nel petto: quello di aver speso la vita a pregare e a reprimere i le desideri e gioie della migliore età. Forse anche loro avevano fatto in tempo a goderne alcune, di quelle antiche gioie, prima di lasciare fuori dalla pesante porta di un convento miseria, amori, delusioni, violenze, forse anche figli. Peccato per la suorina - le altre due in fondo il loro percorso lo avevano fatto -, ma lei, quante cose aveva imparato del mondo prima di votarsi a una innaturale reclusione e alla definitiva castità? Chi poteva saperlo. Quel complicato velo inamidato avrebbe potuto celare verità sorprendentemente diverse dalla vocazione e dalla eterna fedeltà a Dio.
***
Nei giorni e nelle settimane che seguirono, i sentimenti tanto impetuosi nati tra me e Salvina vissero di interminabili conversazioni telefoniche e di lunghe lettere, si nutrirono di espressioni struggenti, si andarono consumando in attese frustranti, si dissetarono con le sue lacrime. Il tanto sperato successivo incontro non ebbe mai luogo o, meglio, fu fugace e inutile, nebuloso ed evanescente come un sogno. Le sue telefonate mi raggiungevano a casa dei miei, brevi e affannose, interrotte da silenzi e da singhiozzi: non sarebbe riuscita a vedermi; l'attenzione dei parenti pugliesi era opprimente.
La consolavo, promettevo che avrei fatto di tutto per incontrarla, a costo di seguirla fino a Cecina, e mi sentivo responsabile di quelle lacrime.
Una volta mi spinsi tra la folla dello struscio serale lungo il corso di Modugno. Conoscevo l'indirizzo di Salvina, che me lo aveva rivelato al telefono dopo insistenti richieste, facendomi promettere però che non sarei mai andato a cercarla e a bussare a quella porta.
Passai e ripassai più volte sotto quei balconi senza vederla. Poi, all'improvviso lei mi si materializzò davanti con aria allarmata, sbucando tra grumi di gente in lento e vischioso movimento nel compatto passeggio serale e, sfiorandomi appena, mi sussurrò: "Vattene, gli zii sono dietro di me."
Senza dare nell'occhio ai suoi attenti guardiani, con un gesto infantile mi spedì un bacio del tutto virtuale, soffiando sul palmo di una mano aperta.
Continuammo a scriverci anche dopo la sua partenza, almanaccando futuri incontri a Cecina.
Intanto, il mio amore di tanti anni si sdruciva tra discussioni, sospetti e strisciante disinteresse reciproco.
Poi, per disavventura, la mia fidanzata raccolse da terra una lettera di Salvina cadutami accidentalmente dalla tasca di una giacca.
L'epistola, carica com'era di miele, tolse ogni velo a quell'esperienza inconfessata.
A Salvina vennero riservati giudizi severi e definizioni irripetibili, a me invettive e sdegnato disprezzo per la mia infedeltà.
La crudele prese nota dell'indirizzo e del nome della giovane e le scrisse parole aspre: che dimenticasse me e quella notte assurda in treno, da fraschetta insensata e incauta qual era, perché io ero da tempo impegnato sentimentalmente, non mi ero ancora laureato e, se volevo concludere in tempo il mio corso di studi, non avevo tempo da perdere con avventure da rotaia con giovanette facili e senza cultura, neppure capaci di scrivere in un corretto italiano.
Salvina mi chiamò ancora una volta, l'ultima, per dirmi che, dopo aver ricevuto l'offensiva lettera della professoressa, aveva deciso di non avere più contatti con me: ci saremmo fatti ambedue del male, inutilmente. Che facessi pure la mia vita senza intralci da parte sua. A nulla valsero le mie promesse di andare a trovarla.
***
Alcuni mesi dopo quella scenata giunse gelido e tagliente l'annuncio della mia promessa sposa: mi lasciava.
Me lo disse con due parole dopo una breve discussione, in una malinconica serata novembrina di pioggia, davanti al portone della casa in cui era stata ospite per alcuni anni presso lontani cugini.
Per lei ero troppo geloso e pure infedele. Le due cose non andavano d'accordo, mi disse, rispondendo alle mie richieste di una plausibile spiegazione di quella specie di licenziamento in tronco.
Mi spiegò brevemente che lei era già laureata e lavorava, mentre io mi andavo baloccando con qualche avventuretta senza senso e trascuravo gli esami: ero già al quinto anno di medicina e vendevo enciclopedie porta a porta per raggranellare qualche lira e non sentirmi un miserabile. Se mi fossi laureato in tempo, sarei partito subito dopo per il servizio militare obbligatorio. Avrei fatto certamente l'ufficiale medico e per quindici mesi sarei stato uccel di bosco. Dopo quattro anni di attesa lei avrebbe dovuto attendere ancora a lungo e durante tutto il tempo della ferma avrei trovato il modo di tradirla con un battaglione di donne facili e semmai anche il coraggio di temere la sua infedeltà.
Le avevo dato la prova, diceva, di una insopportabile gelosia e di una morbosa passione per i treni.
Sarebbe stato meglio che partissi, che saltassi su uno di quei treni, dando un seguito alla mia patetica avventura ferroviaria con quella sventata Salvina, scialba nel nome e ignorante come una talpa.
Così, su due piedi, si sfilò l'anello di fidanzamento e me lo mise nella tasca del paltò, raccomandandomi di non perderlo: mi sarebbe servito sicuramente per qualche altro giro di inganni.
Non un bacio, non un abbraccio, neppure una stretta di mano. In tre minuti finì tutto e quattro anni di amore complice e intenso vennero cancellati.
Rimasi muto e incredulo, mezzo bagnato sotto un ombrello inutile, tenuto obliquo e abbandonato su di una spalla.
Mi sentii un verme, colpevole per aver sprecato tutto, cedendo irresponsabilmente alla tentazione di una casuale, quanto innocente avventura, e causando per di più un'umiliazione così cocente all'incolpevole Salvina, che avevo tradito per non essermi opposto con la necessaria energia al suo proposito di non vedermi e di non sentirmi mai più.
Nei mesi che seguirono i miei sogni si popolarono di immagini e di voci: quelle sdegnate e accusatorie della mia fidanzata in fuga e quelle dolci di Salvina. Non riuscivo a dimenticare quella breve notte in treno. E i disturbi da attacchi di panico si facevano sempre più frequenti e terrificanti. Ci volle tempo per smaltire l'amarezza di due sconfitte.
I miei genitori, preoccupati, pretesero che andassi con loro a Vico Equense per una vacanza di due settimane all'inizio dell'estate successiva. Alloggiavamo in una pensioncina fatta a terrazze, dove si faceva colazione e si pranzava in mezzo a piante di limoni, su tavoli di ferro battuto disposti lungo la ringhiera di un belvedere fiorito e dall'alto del quale lo sguardo spaziava sul Golfo di Napoli. Al mare verde si accedeva per una scala di interminabili gradini. La breve e poco profonda spiaggia era di un color oro carico. Quando scendevo dopo colazione era ancora in ombra e fino al mattino inoltrato non era mai frequentata. Poi facevano la loro comparsa una famigliola con dei bambini e due giovani donne apparentemente della mia età. Bionde e dalle forme scultoree, trascorrevano la maggior parte del tempo in acqua e ogni tanto si sdraiavano come lucertole al sole, i corpi color ambra nei bikini succinti, i capelli raccolti in uno chignon perennemente zuppo. Una mattina si accorsero di me che, di spalle al sole, le guardavo e sorridevo. Si portavano la mano a visiera sulla fronte per vedermi meglio contro il sole che spuntava accecante da un roccioso promontorio. Una di loro, che sembrava cantasse quando rideva, mi chiamò. Mi alzai scuotendomi la sabbia di dosso e mi avvicinai a loro.
-      Senti, un pò, tu che sembri del posto, sai per caso dov'è una grotta
marina da queste parti? dove alloggiamo, a Marina Aequa, ci han detto che è piccola e bellissima.
-      Non so, risposi io, ma ne ho sentito parlare. Non sono di qui e interessa anche a me vederla. Mi pare che il padrone della pensione quassù dicesse che è poco oltre quell'arcipelago di scogli alla nostra destra. Ci si arriva a nuoto, ma non ci sono ancora andato. Del resto, che ci vado a fare da solo?
-      E allora, Enza, andiamo tutti insieme, disse precipitosamente con voce squillante 'ugola d'oro', la più alta delle due.
-        Io non vengo, oggi riposo, disse l'altra. Vai tu Francesca, lui ti fa da guida e io vi aspetto. Ma non fate tardi, che tra un poco mi viene fame.
Nuotammo affiancati e trovammo la grotta. Vi entrammo camminando nell'acqua bassa fino a una spiaggia di ciottoli multicolori e riposammo distesi e muti per alcuni minuti. L'acqua ci lambiva le gambe, le sollevava e le spostava avvicinandole. Guardammo ambedue verso l'apertura della grotta e le sue pareti. Avevamo sete e bevemmo a grandi sorsi il silenzio antico di tante migliaia di anni, rotto dalla ritmica e discreta risacca intenta ad arpeggiare tra i ciottoli ad ogni suo passaggio. Giochi di luce si inseguivano sulle piccole onde dall'ingresso della grotta fino a noi. L'aria era fresca, troppo. Non avemmo il tempo di lamentarcene.
Ci scaldammo con sguardi roventi, a lungo curiosi delle nostre liberate nudità, senza mai neppure toccarci.
Trascorsero così i giorni della mia convalescenza, tra mare, sole, nuovi pellegrinaggi alla grotta - stavolta in tre -, salite e discese lungo le erte scalinate che tagliavano, tra muraglie tappezzate di piante fiorite di cappero, i fianchi delle colline fitte di ulivi e di limonaie. Le serate trascorrevano tiepide e profumate tra canzoni a tre voci accompagnate dal suono di una chitarra votata a motivi di Fabrizio de André, immortali melodie napoletane e inni dei movimenti rivoluzionari dell'America latina, davanti a un fiasco di vino nero, che ci passavamo, bevendo a turno a canna ed asciugandoci le labbra col dorso della mano.
Capii che certi dolori stavano passando e lo capirono presto anche i miei.
La vita da scapolo libero da vincoli sentimentali risvegliò la mia curiosità verso le donne e mi fece tornare da loro, senza rancori e preconcetti di sorta. Esclusi dal repertorio dei miei sentimenti la cieca adorazione e sperimentai senza scandalizzarmi che l'infedeltà non ha genere.
Cancellai dalle mie tentazioni ogni forma di idealizzazione e adottai vincenti strategie di caccia, peraltro molto apprezzate dalle mie complici prede. Mi furono maestri Ovidio e Boccaccio, dei quali avevo divorato, letto e riletto rispettivamente l'Ars amatoria e il Decameron, facendone anche oggetto di tesi scolastiche. Catullo poi mi aveva insegnato a non trascurare l'amore con e per le donne più grandi di me, protette da Venere e detentrici di arti e magie insospettabili.
A novembre di quell'anno mi laureai, districandomi a fatica dalla tela di ragno che mi ero costruito da solo, ormai troppo carica di impegni sentimentali. Tra addii e promesse di marinaio impiegai due mesi per recuperare la mia completa indipendenza. Giusto in tempo per partire alla volta della Scuola Allievi Ufficiali Medici di Firenze.
 
EPILOGO
 
Tanti anni dopo, quando l'episodio del mio addio a un amore durato a lungo e interrotto così bruscamente andava perdendo già da tempo i suoi contorni, relegato com'era nell'angolo più remoto della mia memoria, un nuovo dolore lo riesumò, per fortuna meno acuto di come era stato allora e quasi liberatorio: appresi la vera e insospettabile causa dell'abbandono. La mia fidanzata laureata in lettere aveva preferito giocare al dottore con un lontano cugino appena sedicenne, bleso, obeso e basso, dall'aspetto eunucoide, ma ricco, figlio dei lontani ed ospitali parenti presso i quali aveva alloggiato i primi due anni dell'università. Furono gli stessi genitori del giovane a raccontarmi tutto durante un occasionale incontro, quando ero ormai sposato e avevo già due figli.
Sulle prime non avevano capito le vere cause della rottura improvvisa di una lunga relazione già avviata al matrimonio. Poi, una sera, tornando prima del tempo da un viaggio, avevano sorpreso la professoressa e il figlio ancora minorenne nudi come vermi nel loro letto matrimoniale, intenti a un diligente ripasso del Kamasutra.
Quella relazione malata era iniziata già sei mesi prima del mio colpevole viaggio, come il giovanissimo e flaccido amante aveva poi confessato tra lacrime e implorazioni ai genitori. Ce n'era voluto di tempo, mi dissero, per fargli dimenticare quella bruciante esperienza.
Dunque, il fiore mai colto da me altro non era che un fico d'India saporito, questo sì, ma pieno di spine e pronto a farsi cogliere da altri disposti a pungersi.
Mi aveva salvato da lei un caso di nome Salvina, la storia del mio tradimento, l'ufficiale pretesto sufficiente a mettere la parola fine alla nostra vicenda sentimentale.
La verità era invece un'altra, l'unica cui non avrei mai creduto, perché semplicemente inimmaginabile.
***
Qualche tempo dopo, in occasione di una mia vacanza in Puglia mia madre mi consegnò una busta chiusa a me indirizzata. Non c'era il mittente e l'indirizzo era scritto in stampatello. La provenienza era illeggibile.
-   La tua posta l'ho gelosamente custodita per molti anni, mi disse, guardandomi dal basso verso l'alto con aria di rimprovero. L'avevi abbandonata in un cassetto della scrivania e l'ho letta, tutta. Ho appreso molte cose di te e della tua vita; non si finisce mai di capire i figli. Poi ho bruciato quel pacco di storie intense, alcune rubate, tutte concluse. Ho salvato solo questa busta chiusa, anche se è arrivata molti anni fa dopo la tua partenza. Non ho mai capito da dove venisse.
Lacerai la busta. Conteneva due biglietti ferroviari Roma-Bari, solo andata. Sul retro di uno di essi c'era il numero telefonico e l'indirizzo di casa dei miei.
 
 
TRENI
I treni bruciano il tempo,
separano vite,
trasportano illusioni,
sfide,
ritmano sogni,
inseguono speranze.
Li muove
il fascino del nuovo,
dell'incerto,
del probabile,
di luci lontane.         
 
Luigi Leo
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Ogni riferimento a fatti e a persone realmente esistiti è puramente casuale e il racconto è il prodotto esclusivo della mia immaginazione. Chiunque credesse di riconoscermi nello scombinato protagonista di questa storia di ordinaria infedeltà, sappia che si sbaglierebbe.
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