Nonna Marietta e nonno Luigi

La mia nonna materna, nonna Marietta per tutti noi nipoti e donna Marietta per amici, conoscenti o rispettosi concittadini, era il frutto dell'ultima delle diciassette gravidanze della moglie di Luigi De Benedittis, noto come don Luigi il Verdòne. Se il cognome fosse de Benedittis, oppure De Benedittis, ovvero De Benedictis, non l'ho mai appurato. Forse non l'ha capito ancora nessuno dei suoi discendenti. Non tutte quelle creature della mia bisnonna vennero alla luce e, dei nati vivi, ne sopravvissero solo sette, tre femmine e quattro maschi. La madre morì dell'ultimo parto. Il nome della bisnonna si è perso tra i mille ricordi della mia vita con la nonna Marietta, dei suoi figli quella fatale. Sette su diciassette…Una volta si partoriva in casa e molti bambini, o nascevano già morti, o morivano appena venuti alla luce. Altri abbandonavano questo mondo nei primi mesi di vita. Un soffio di vento bastava a portarseli via, come petali di fiori malati.  Di loro rimaneva un ricordo, un segno sbiadito di quel breve e non di rado fulmineo passaggio terreno, che non sempre trovava posto sul comò in mezzo all'esposizione di santini e di fotografie dei parenti passati a miglior vita. Rimanevano rare e dolorose immagini rubate alle minuscole bare bianche prima che venissero chiuse per sempre e che i loro occupanti fossero restituiti al mittente, sì da testimoniare in mélange di bianco e nero, o in un triste color seppia, il breve passaggio terreno di  quegli inconsapevoli innocenti.  Quegli angeli, figli dell'amore o della miseria, spesso dell'abitudine, se ne andavano per gastroenterite, difterite, morbillo, polmoniti ed accidenti traumatici fatali. Il medico non disponeva di antibiotici e talora, spesso chiamato in ritardo al capezzale di un bambino in una località di campagna, non faceva in tempo ad arrivare con la sua cavalcatura o con il suo carrozzino, che il piccolo era già tornato al suo limbo. Anche per questo motivo si preferiva vivere nelle cittadine, piuttosto che in campagna o, peggio, tra le colline sassose delle Murge. E poi c'era il timore di incursioni, rapine e uccisioni da parte di pericolosi briganti. Dopo alcuni decenni dalla proclamazione dell’Unità d’Italia, alla fine del diciannovesimo secolo, chi sopravviveva doveva ancora la sua fortuna, se tale si poteva chiamare, a circostanze favorevoli, come quella di vivere nei pressi di un ospedale o dell’abitazione di un medico, oppure a una costituzione congenitamente robusta e, non da ultimo, a condizioni di agiatezza economica della famiglia e di disponibilità di mezzi per le cure, che avrebbero potuto far sperare persino in una inconsueta  longevità.  Così, la nonna Marietta venne al mondo gracile e minuta, inconsapevole suddita del giovane Regno d'Italia e dei Savoia, famiglia di inetti donnaioli che si erano annessa tutta l'Italia con poca spesa: un soldo. Ma lei, questo, non poteva saperlo. Si pensò che la piccola avrebbe ben presto seguito la sua sfortunata genitrice. I pessimisti però dovettero ricredersi: infatti, a dispetto delle più infauste previsioni, Marietta crebbe inappetente, malaticcia, magra, ma sopravvisse, capricciosa e testarda come un mulo.  In famiglia veniva considerata una creatura debole, una piantina ammalata. Si diceva che avesse dato preoccupazioni per la sua salute al padre e alle sue due sorelle, che si occuparono di lei con amore. Un fuscello che la vita piegò tante volte, senza riuscire a spezzare. Per tutta la sua lunga esistenza rimase nell’immaginario familiare come l’espressione vivente della malattia, della sofferenza e della denutrizione, non disgiunte da un pervicace, tirannico autoritarismo e da una spiccata volubilità. 
La rammento così: il viso pallido e scavato, gli zigomi altissimi, gli occhi infossati e le occhiaie scure, il naso affilato, anemico e sempre pronto a cambiare di colore - che virava sensibilmente verso il verdognolo in occasione di contrarietà o di diverbi, proprio come accadeva a suo padre -, i capelli tirati indietro e raccolti in una sottile treccia arrotolata in una piccola crocchia sulla nuca, il tuppo, la schiena irrimediabilmente curva.  Per quanto io riesca a ricordare, vestì sempre e soltanto di nero - forse già dalla perdita del primo figlio - ed esibì incurante per tutta la vita quella sua apparente fragilità, una maschera dolente dietro la quale si nascondeva il suo vero temperamento.  Allora, il vestire di nero era il modo di esibire “sine die” il dolore per la morte dei propri cari in tutta l’area mediterranea, non solo in Italia e, di morti, lei ne pianse tanti, tra figli e parenti, a cominciare dal primo figlio, Salvatore, stroncato all'età di due anni per una colica addominale, forse una peritonite o un'occlusione intestinale.  Di tutte le perdite subite, però, la più incolmabile fu quella del figlio Ettore, Ettorino - per me zio Tino - morto appena ventenne nel naufragio del Piroscafo “Oria” nel Mare Egeo, qualche giorno dopo la firma dell’Armistizio, il 12 Febbraio del 1944. Lui viveva ancora in casa dei genitori all'epoca della mia nascita nel 1941. Io non ne serbo memoria, eppure di zio Tino e della della sua muta presenza, anche dopo la sua morte, risuonò tristemente la casa paterna e fu piena la vita di tutti, figli e nipoti: ci pensò la nonna, imponendo alla famiglia intera cupe atmosfere nelle quattro settimane che precedevano l'anniversario della nascita di quel figlio, il 23 Gennaio.  Già il 27 Dicembre la gaiezza della ricorrenza natalizia si dissolveva con il sopraggiungere puntuale di un temporale di pianti, di musi lunghi, di sguardi carichi di rimprovero, di recriminazioni e di silenzi ostinati, che gelavano il bel clima dell'intero mese trascorso nei preparativi delle grandi riunioni familiari del 25 e del 26 Dicembre.  Congedati quasi in malo modo figli, generi, nuora e nipoti, scomparsi i mazzi di carte delle interminabili partite di Sette e mezzo e quelle del Mercante in fiera, relegati in uno stipone il rotolo di carta de "Il gioco dell'Oca" coi dadi e le cartelle della tombola, il primo di Gennaio la nonna mi costringeva a seguirla nel suo triste pellegrinaggio.  Col suo cappello nero e la veletta abbassata sul volto, stretta nel suo pesante e lungo cappotto, di buon mattino mi conduceva per mano a prendere l'autocorriera della ditta "Tarantini": si andava a Trani. Il viaggio si svolgeva nel più cupo mutismo, tra gli scossoni del mezzo e il rombo del motore, mentre in me montava la nausea per l'odore di nafta che riempiva l'abitacolo.  Si scendeva in Piazza della Stazione e di lì una delle carrozze sempre ferme in attesa di clienti ci portava alla "Villa comunale".  Era la parte più bella del viaggio, col dondolio della vettura coperta, il rumore degli zoccoli sulla via lastricata, l'odore penetrante dei finimenti e l'afrore tipico del cavallo che impregnava tutto, anche i nostri abiti. In breve si raggiungeva la terrazza a picco sul mare, proprio di fianco al lugubre penitenziario femminile.  Ferma in mezzo alle tamerici, la nonna prendeva a recitare sommesse preghiere e a parlare in lacrime col figlio morto, affacciata alla balaustra cogli occhi fissi sull'acqua, mentre le onde si rompevano sugli scogli e la risacca si portava via il mazzo di fiori da lei lanciato in mare a disfarsi nella caduta.  Poi, ambedue con gli occhi rossi di pianto, riprendevamo la via del ritorno, a piedi stavolta, mano nella mano, fino alla stazione ferroviaria e al capolinea degli autobus per Corato. La consegna del silenzio si allentava col ritorno a casa. Lì la nonna apriva un'anta del grande armadio di legno scuro della camera da letto, estraeva con cura una fisarmonica nera dalla sua custodia, l'accarezzava, me la faceva toccare e poi la riponeva come una reliquia.  
Era tornata a casa, quella fisarmonica del figlio morto, portata da un commilitone con cui zio Tino aveva malauguratamente scambiato la data della licenza, proprio pochi giorni prima dell'Armistizio. Quel segno della malasorte e di una grande generosità d'animo era tra le poche cose rimaste di lui, insieme a qualche capo di vestiario e a rare fotografie. Passarono lunghi anni prima che il suo nome comparisse in patria nel triste elenco delle vittime di quella tragedia, presso il sacrario dei Caduti di Oltremare. Quando fui più grande mi venne consentito di suonarlo quello strumento, come potevo. Venni mandato per questo a lezioni di musica, che non imparai mai. Avevo orecchio, ma non simpatia per il pentagramma. Così la fisarmonica di zio Tino rimase a mio cugino Luigi Patruno, che ne seppe fare miglior uso. La nonna non si riprese mai da quella che io credo sia stata la sua più vera, grande, incommensurabile e insanabile sofferenza del corpo e dello spirito. Sino alla fine.  Si consolò un poco con la lettura e con gli interminabili solitari con le carte napoletane; amò i libri gialli, dei quali un armadio in salotto traboccava; su di essi consumò sino all’ultimo giorno i suoi occhi che non conobbero cataratta, se non poco prima della fine. Si circondò di tanti nipoti che le perdonarono il suo temperamento così spigoloso con gli adulti. Aveva diviso precocemente il letto matrimoniale e si comportò sempre come se una delle cause del suo malessere fosse il marito, che le aveva fatto mettere al mondo sei figli, di cui il primo, Salvatore, perduto in tenera età e l'ultimo, Ettorino, falciato da un destino beffardo proprio a causa dell'armistizio con gli Alleati, preso prigioniero con altri quattromila soldati italiani dai tedeschi, che di quella pace non ne volevano proprio sapere. Lei per carattere era proprio una figlia di Luigi De Benedictis verdone, per me nonno Batù a causa del bastone da passeggio dal quale non si separava mai e che spesso agitava minaccioso verso screanzati e contestatori delle sue idee. Si diceva che quell'arma impropria il nonno l'avesse usata anche per difendersi da qualche picchiatore locale. Uomo tutto d'un pezzo, aveva negato l'Oro alla Patria ed era di idee radicali con poche simpatie per la politica e per Mussolini. Quelle le riservava con tenacia ai valori della terra, delle greggi e delle masserie della pietrosa e avara Murgia pugliese. Era detto verdone a causa del colore verdognolo che prendeva il suo naso durante le arrabbiature. Non ammetteva dinieghi e disobbedienze, non tollerava che i piccoli parlassero mentre conversavano i grandi, ma era sempre pronto a soddisfare qualche loro capriccio. Rimasto vedovo prima dei cinquant'anni, don Luigi mise l'ultima figlia, Marietta, in un collegio di suore di Napoli, perché ricevesse un’educazione scolastica adeguata e vi rimanesse sino all’età da marito, allorché andò in sposa poco più che sedicenne a Luigi Piarulli, che di anni ne aveva venti.  Dai rari racconti che la nonna faceva di quel periodo della sua vita, appresi che in quel collegio le avevano insegnato a leggere e a scrivere, a cucire e a ricamare, a comportarsi da buona padrona di casa, ospitale e ben educata. Non ho mai appurato quale titolo di studio avesse conseguito, forse la licenza elementare, eppure lei scriveva in un perfetto italiano con una calligrafia inclinata verso destra, senza svolazzi o sbavature. Ho conservato le sue lettere e le cartoline fino alla fine del servizio militare, documenti preziosi per capire chi lei fosse realmente. Nonna Marietta a me, che ero il più grande dei nipoti e da piccolo ne ero innamorato fino al punto di farle promettere che mi avrebbe sposato una volta cresciuto, raccontava di avere sofferto di anemia a causa di misteriose e gravi emorragie. Veniva poi colta regolarmente da terribili coliche addominali estive e da un puntuale, fulminante raffreddore agostano, che la ghermiva d'un tratto, facendola boccheggiare e riempire montagne di fazzoletti da naso per due settimane.  
Erano quelli, per noi nipoti, per i figli e per il marito gli altri giorni infausti dell’anno, con lei del tutto intrattabile e il nonno che, a causa di quel malanno sciagurato, che investiva la vita dell'intera famiglia, fingeva di stramaledire il tempo atmosferico, responsabile inconsapevole di tutte le disgrazie, persino in agosto, quando il cielo aveva ancora poco o nulla da farsi rimproverare, perché non avrebbe annunciato temporali prima della festa di San Cataldo, Patrono di Corato. Ma noi sapevamo che le imprecazioni non erano propriamente dirette al cielo. Non si appurò mai la vera causa scatenante di quel raffreddore estivo. Si trattava certamente di un'allergia. Le coliche, invece, giungevano immancabili nella lunga stagione delle angurie, di cui la nonna Marietta era ghiotta e che divorava freddissime in quantità incompatibili con la sua esile costituzione. Ebbi poi il sospetto che a quei dolorosi attacchi non fosse del tutto estranea anche l'abitudine di cenare quasi ogni sera con un uovo fritto al tegamino e un'altra ancora: quella di consumare avidamente durante il periodo estivo le ottime granite di caffè della gelateria de "Il Reduce".  Per reduce si intendeva uno che era tornato vivo dalla guerra. Era, quella, una specie di onorificenza del destino e della Patria, che apriva qualche porta in tempi di miseria e di disoccupazione.  Il giovane, che il conflitto non era riuscito ad uccidere, si era inventato il lavoro di gelataio, aprendo la sua bottega proprio in un locale di proprietà della nonna, al piano terra della grande casa di Largo Plebiscito. Era figlio di maestro Cataldo, il barbiere della famiglia, e faceva gelati da sogno, menando la paletta da mane a sera in quel cilindro mezzo pieno di una tentatrice massa cremosa . Non ne sono certo, ma credo che quelle consuetudini alimentari non abbiano compromesso in alcun modo il destino di longevità già assicurato alla nonna Marietta da un robusto patrimonio genetico. Degli zii paterni due, uno notaio e l'altro farmacista, erano morti ultracentenari. Il padre se n'era andato a novantadue anni, forse per una malaugurata polmonite. Solo uno zio era morto ancora relativamente giovane, perché investito da un camion mentre a piedi cercava di raggiungere Trieste. La storia dello zio triestino era romanzesca. La nonna Marietta raccontava come lui, giovane avvocato, si fosse perdutamente innamorato di una quindicenne di Gravina di Puglia, la bella figlia di un fornaio, e con lei si fosse barricato in una delle masserie fortificate nella Murgia barese per sfuggire ai parenti della giovane, che pretendevano vendetta e riparazione.  La felicità per i due innamorati fu breve, perché la giovane morì di polmonite e lui, pazzo di dolore, abbandonò la professione e i fratelli.  Col tempo se ne ebbe solo qualche frammentaria notizia. Poi, un giorno si ripresentò alla sua cittadina di nascita e alla famiglia d'origine con un piccolo gregge di capre, male in arnese e barbone. Coi suoi animali era partito da Trieste - ove era vissuto sino ad allora -, percorrendo tutto lo Stivale a piedi. La permanenza nella terra d'origine durò poco, perché lo strano e misterioso zio un bel giorno sparì con le sue capre: aveva preso la via del ritorno. Durante quel viaggio a piedi venne travolto e ucciso coi suoi animali da un camion nelle Marche. La nonna raccontava volentieri le storie, i malanni e le disavventure degli altri, specialmente quelli dei parenti vicini e lontani, ma non era incline a parlare dei suoi.  Sciorinava a noi nipoti inesauribili racconti nel suo italianissimo linguaggio disseminato di espressioni in un lessico del tutto particolare, l'unica eredità lasciata dalla buonanima di Coletta, l'anziana governante (già amante?) del nonno Batù da quando egli era rimasto vedovo. Erano aforismi sovente criptici, di cui solo la serva-padrona conosceva il reale significato, ma che segnavano una ricca aneddotica, un patrimonio da tramandare ai posteri, modelli e fonte di saggezza popolare e personale, ammiccanti suggerimenti per l'educazione dei giovani, proverbi o sapide metafore. Coletta era anche una fonte di notizie sulla famiglia del nonno Batù, ma anche esempio di tenacia e di coraggio. Aveva continuato a lavorare con devozione e a dedicarsi per tutta la vita a quell'uomo dispotico e inflessibile. Era morta prima di lui, non tanto per le angherie almeno verbali da lui subìte, bensì per  aver riportato una frattura del femore mai curata. Dei richiami a Coletta e alla sua vita di fedeltà ribelle erano ricche le conversazioni tra la nonna e le figlie, che le vedeva tutte trasognate come a ricordare tempi belli, che non sarebbero mai più tornati. Non so se Coletta compaia in una delle fotografie più vecchie ancora in nostro possesso. Avrebbero potuto rivelarlo zia Dorina o zia Bianca - la più informata -, mia madre o zio Savino, che purtroppo non ci sono più. La nonna parlava uno schietto dialetto col marito o coi figli specialmente quando la contraddicevano. Lo usava abitualmente con le donne che l'aiutavano in casa, qualche ragazza di famiglia indigente e altre due indimenticabili figure femminili degne della fantasia di Victor Hugo. Le ragazze di servizio erano figlie di famiglie povere, che le affidavano poco più che adolescenti in cambio di poche lire, del vitto, dell'alloggio e della dote nuziale - biancheria intima e da letto, corpetti, tovaglie, pannolini e canovacci da cucina - che la nonna provvedeva ad approntare loro a fine servizio. Dormivano in una soffitta sopra la cucina, cui si accedeva per una scala di legno ripida e pericolosa, dalla quale col loro salire e scendere esibivano tutto quanto potevano mostrare, specialmente se non portavano le mutande. A loro era interdetta la stanza da bagno grande dotata di vasca, bidè e gabinetto inglese: dovevano servirsi di un bagnetto angusto che dava sulla cucina, munito di un piccolo lavandino e di una misera turca, il cui uso era tra l'altro consentito esclusivamente in orari antelucani o a notte fonda; soltanto in casi eccezionalissimi anche di giorno, a patto che in cucina non ci fosse nessuno. Angelina era una delle donne di servizio stanziali, viveva con un marito mezzo malato e con un figlio zoppo, Aldino, che aveva ambedue i piedi equini. Occupavano un locale al piano terra della casa dei nonni. Il tugurio dava su di una strada stretta, non lastricata e Angelina tutti i santi pomeriggi d'estate si metteva davanti alla tenda lercia della porta di casa, alla luce dorata del sole avviato al tramonto e sotto una fetta di cielo solcata dalle rumorose squadriglie di rondoni e di rnzanti mosche, a spidocchiare il figlio. Ogni tanto il discolo girava l'angolo e spariva nella contigua Piazza Plebiscito traballando sui suoi piedi torti alla ricerca di una libertà breve e sofferta, mentre lei prendeva a chiamarlo ripetutamente e a urlare lugubremente: "Aldiiiiino, Aldì vieni subbit ddò, ci nan vù(oi) ca t' crep' di mazzate". Quando il poveretto si decideva a tornare erano calci nel sedere e colpi con i pugni chiusi sul cranio mezzo rapato e segnato da cicatrici biancastre. Povera Angelina, aveva solo un paio di canini superiori e vestiva sempre con una palandrana dal colore indefinibile. Non portava mai le mutande, neanche lei, per indigenza o per praticità. L'altra figura domestica, che alternava periodi di presenza ad altri di allontanamento - forme di ostracismo decise d'autorità dalla nonna per motivi igienici - era Graziella di Mest Catall (Maestro Cataldo), che maestro non era, bensì falegname, fumatore incallito, ubriacone, comunista sfegatato, corto, gobbo e manesco, svogliato e sfaccendato cronico, frequentatore compulsivo della locale Camera del Lavoro, profeta del Sol dell'Avvenir, odiatore seriale di chiunque godesse di un certo benessere economico, cui comunque aspirava sfruttando il lavoro della disgraziata moglie, con la quale divideva una stamberga a Via Giappone, la periferia pià misera di Corato. Piccola di statura, con le ginocchia da cavallerizza, Graziella, regolarmente sdentata anche lei, esibiva una voluminosa capigliatura riccia pepe e sale, spampanata, che agitava di continuo facendo così temere pericolosi spargimenti di pidocchi. Ripetutamente scacciata, spesso anche per una forma di incontinenza che le faceva lasciare scie marroncine di inequivocabile natura in giro per casa, veniva riammessa in servizio dalla nonna quando si presentava disperata e malconcia per le botte ricevute dal marito. In quelle occasioni doveva sottoporsi ad un'accurata disinfestazione della chioma a base di petrolio o di generose pompate di Flit (DDT) prima di riprendere servizio. Il vernacolo la nonna lo riservava anche ai momenti di rabbia, agli anatemi, o semplicemente alle sibilline profezie che non di rado azzardava in preda a uno stizzoso rancore verso chi discuteva i suoi ordini.         Allora, al suo parlare velenoso univa un nervoso rimescolio della cenere nel gran braciere di ottone, intorno al quale lei e noi bambini ci affollavamo d’inverno, inconsapevoli della intensa cura di anidride carbonica, cui ci sottoponevamo alla ricerca di calore. Con quei movimenti, eseguiti con l'aiuto di una paletta di ottone lavorato, il palettino, lei scaricava tensioni emotive e rabbia; spesso però, l'aggeggio, usualmente innocuo, compiva nelle sue mani pericolosi evoluzioni per l’aria circostante, diventando un'arma impropria destinata a scongiurare possibili o fantomatici malanni e disgrazie, oppure una eloquente minaccia per chi non condivideva le sue idee.  La nonna di solito, tra le profumate esalazioni di bucce di mandarino e croste di pane lasciate a bruciare nel braciere per confondere le venefiche esalazioni emanate dalla carbonella di mandorle, raccontava, raccontava col suo profilo asciutto, i capelli tirati nel tuppo, gli occhi marrone infossati nelle orbite, fissi e tristi, lo scialle di lana fatto a mano sulle spalle magre e curve, l'espressione di ostinata e immutabile sofferenza sul volto. E le sue storie avevano sempre qualcosa di magico, di affascinante, ma anche di comico: l'inspiegabile comicità dell'attore dal volto irrimediabilmente malinconico. Ma nonna Marietta parlava anche in latino, anzi pregava. Accadeva quando si rifugiava terrorizzata nella dispensa - tra provviste e bidoni di olio, ma anche topolini sfuggiti alle trappole da lei preparate, all'arrivo di un temporale. In quel minuscolo locale che a lei doveva sembrare un sicuro rifugio antiaereo, si raccoglieva in preghiera vicino a una candela accesa e attaccava con rosari autogestiti, giaculatorie e accorate preghiere. Emergeva dalla dispensa dopo l'ultimo tuono lontano, le guance e gli occhi insolitamente arrossati e il naso ancora gocciolante delle ultime lacrime. Il nonno, tra una imprecazione e l'altra, diceva che in quell'angusto locale e sotto la minaccia dei fulmini lei piangeva finalmente tutti i suoi peccati. E così confabulando e tirando giù dal cielo gran parte dei santi in calendario, scendeva precipitosamente le ampie scale di casa per uscire all'aperto a controllare che non grandinasse. Delle sorelle della nonna Marietta, Lina, la più bella e anche la più anticonformista, invaghitasi di un bellimbusto rovinato al tavolo da gioco, fuggì con lui nelle Americhe. Lasciarono alle loro spalle un oceano di creditori. Il padre, nonno Batù, solido e apprezzato amministratore dei beni di una grande e prestigiosa famiglia di nobili latifondisti, si accollò tutti i debiti della scellerata coppia fuggiasca, onorandoli sino all’ultimo centesimo e incanutendo completamente "in una sola notte" - così si esprimeva la nonna per rendere l'idea della gravità di quell'evento - a causa della vergogna e delle preoccupazioni riservategli dalla ribelle. Si raccontava, infatti, che il marito di zia Lina, tal Vincenzo La Pecora di soprannome, si era rivelato tanto irresponsabile e dipendente dal gioco, da aver lasciato morire di fame e di sete la sua giumenta, che lo aveva atteso paziente in strada, senza cibo e senz’acqua, per quattro giorni e quattro notti fuori della porta del circolo, ove lui aveva giocato a carte senza interruzioni, del tutto inconsapevole dell’avvicendarsi della luce e del buio, del trascorrere delle ore, del tragico e irrimediabile dissolversi del suo patrimonio, oltre che della misera fine che sarebbe toccata alla sua fedele e incolpevole cavalcatura. Zia Lina riattraversò l'Atlantico dopo qualche tempo, tornò dalle Americhe vedova e con le pive nel sacco. Si presentò al nonno Batù cospargendosi il capo di cenere. Lui non le negò il suo perdono e per lei uccise il vitello grasso.  Dopo il prescritto periodo di lutto, zia Lina sposò un uomo maturo e benestante, zio Salvatore Suppa, disposto a capirne la disavventura, il carattere capriccioso ed estroverso, reso tollerabile grazie alla sua briosa avvenenza. Si trasferì in Toscana, vicino al fratello Michele, trascorrendo gran parte della sua vita in una tenuta nei pressi di Castelfiorentino.  Mio padre nutriva grande ammirazione e riconoscenza per lei che, insieme al fratello Michele, lo aveva salvato dalle retate dei tedeschi alla fine della seconda guerra mondiale. Di lei si raccontava, tra l'altro, che avesse anche capacità medianiche. 
A noi nipoti, la storia di quella zia scapestrata causava un interesse quasi magnetico, ma la drammatica vicenda di zia Lina e del suo autoritario genitore, del cui racconto la nonna Marietta si compiaceva tanto, a noi non garbava molto. Ci rammaricavamo invece per due cose: per il povero cavallo, morto di sete e di fame, e per la perdita di una golosa occasione, quella di avere anche noi una zia d’America - mitica ed emblematica figura in quel misero dopoguerra -, di cui tanti nostri compagni di scuola vantavano la parentela e gli invii di favolosi pacchi dono. L’altra sorella della nonna Marietta, zia Lisetta, morì di una grave malattia di fegato. Almeno, così si disse. Di lei conservo un bel ritratto in dimensioni reali. I capelli lievemente ondulati, le labbra sottili e rinforzate da un probabile rossetto, atteggiate in un accenno di sorriso, che sembrano rivelare bontà e comprensione. Lo sguardo è dolce, rassicurante, ma ha in sé un certo che d’interrogativo o di dolente. Quell’unico ricordo di altri tempi è rimato appeso al muro per alcuni anni, prima nella casa di Canazei, poi in quella di Jesolo. I miei figli Cataldo ed Ernesto, e mio nipote Edoardo, che hanno dormito per anni sotto lo sguardo buono di zia Lisetta, non mi hanno mai chiesto a chi sia appartenuta quella fotografia. Forse avevano fatto l’abitudine alla sua muta presenza venuta da un passato a loro sconosciuto e non facevano più caso alla figura di donna dallo sguardo comprensivo e misterioso, che vegliava su di loro anche di notte. Poi, la fotografia è stata rimossa, conservata con altri ricordi lontani. Il ritratto faceva coppia con quello del marito di nonna Marietta, nonno Luigi (Piarulli di cognome e Purcuariedd, piccolo porcaro di agnome): colletto duro, capelli neri, baffetti impeccabili, il volto giovane e bello, la stessa espressione benevola mantenuta sino alla fine della sua vita. In quella foto rassomiglia molto a mia madre, della quale ha lo stesso sguardo buono. A ben guardarlo ha qualcosa di Luigi Patruno, figlio di zia Dorina. Di lui mi rimangono tanti ricordi. Innanzitutto quel pomeriggio trascorso sotto i lecci di Piazza Plebiscito il 3 Settembre del 1943. Stava nascendo mia sorella Riccarda e ci avevano letteralmente messi alla porta dopo le prime doglie. L'ostetrica era la mia nonna paterna Riccardina Quinto; assistente era la nonna Marietta; aiutanti non qualificate Zia Bianca e zia Dorina.  L'attesa fu lunga. Ora il nonno sedeva ad una delle panchine in ferro battuto e mi metteva a cavalcioni sulle sue ginocchia canticchiando la filastrocca di "Cavallino, arrò, arrò, per la biada che ti do…", ora passeggiava su e giù all'ombra di quegli alberi tenendomi per mano. Il nostro gioco era il "bacio a pizzichillo": io gli pizzicavo le guance e lo baciavo incurante dell'ispida barba. Fu davvero una lunga attesa, fino a quando una finestra si aprì e sentimmo le prime urla di Riccarda. Urla, non normali vagiti.  Anche i tedeschi, che spadroneggiavano in casa, vennero momentaneamente estromessi. Sarebbero poi fuggiti definitivamente l'8 Settembre, mentre noi tutti, a bordo di un brec riparavamo in una sperduta masseria. Tutti, fuorché il nonno, rimasto in mano ai tedeschi per qualche ora e destinato ad essere ucciso per rappresaglia con altri nove prigionieri coratini se le cannonate degli alleati non avessero dissuaso i tedeschi dal terribile proposito mettendoli precipitosamente in fuga. Fu lui nel 1949 a regalarmi una specie di bicicletta con telaio da donna, recuperato nell'antro di un vicino "ferrovecchio", subito accanto alla chiesa di San Giuseppe. Aveva poi trovato ruote, parafanghi, manubrio e catena. Le ultime ad essere montate furono le pedivelle e le manopole, quasi introvabili all'epoca. Nell'Agosto di quell'anno il nonno si fece tutta la strada da Corato a Trani, località Capirro, dove mia madre e zio Savino avevano un villino, per portarmi quel mezzo di locomozione tutto dipinto di verde. Per fortuna la strada era quasi tutta in discesa. Lo avevo atteso per giorni e giorni, sulla strada Corato-Trani, pensando che lui arrivasse con l'autobus di mezzogiorno della ditta Tarantini e con la bicicletta caricata sul mezzo. Ogni giorno una nuova delusione, finché un bel giorno, fermo sotto un albero frondoso di Villa Cortellino, all'inizio della strada bianca che conduceva al nostro villino, non lo vidi spuntare dalla sommità della collina a cavallo del mezzo di locomozione dei miei sogni, all'inizio dell'ultima discesa verso Trani.  Non ebbe mai un'autovettura il nonno Luigi: si accontentò della bicicletta. Quando zio Savino comprò la sua prima automobile gli regalò la sua bicicletta da passeggio marca Mondiale, una specie di carro armato al quale era stato applicato un microscopico motore con la trasmissione a rullo: il mitico Mosquito. E così Luigi Piarulli girava per Corato, solo in caso di necessità, a bordo di quell'improbabile motorino, che divenne per me oggetto di desiderio già all'età di dodici o tredici anni. Dopo lunghi assedi, spudorate manovre di circuizione e di avvicinamento, qualche carezza alla barba ispida e bianca del nonno, vincevo ogni resistenza, ottenendo l'uso del Mosquito e i soldini per la miscela. Ancora qualche fugace moina di ipocrita riconoscenza e sparivo tra gli scoppiettii e la debole scia di fumo rilasciati dallo scappamento, uccel di bosco per ore, fino quasi all'esaurimento del carburante. Meta preferita, chi lo sa perché, Bisceglie. Forse per la strada tortuosa che correva in mezzo agli olivi, a gravine e su qualche vecchio ponte: un invito irrinunciabile a fare qualche prodezza. Luigi Piarulli si era preso l'influenza "spagnola" nel 1919, ma era sopravvissuto miracolosamente.  Rovinato anche lui dalla crisi mondiale del 1929, non si era suicidato, come tanti altri avevano fatto in quel frangente, e aveva risollevato come poteva le sorti della famiglia producendo vino.  Uomo parco, cenava tutte le sere con una tazza di latte bianco con pane raffermo, andava a letto alle otto di sera e si levava regolarmente alle tre di notte, dopo epiche russate interrotte di tanto intanto da misteriosi e preoccupanti silenzi. Io lo sentivo bene dal mio letto nello stanzino comunicante con la camera matrimoniale dei nonni. Soffriva di gotta tofacea che lo assaliva regolarmente dopo il pranzo di Natale, quello di San Luigi e a Ferragosto, altra ricorrenza conviviale. Non era un mangione, ma apprezzava alcune prelibatezze: i frutti di mare crudi, innanzitutto le cozze nere e i ricci, il muso, le orecchie e i piedini di maiale, che gli regalavano un immancabile aumento degli acidi urici nel sangue. Alle prime dolorose avvisaglie il nonno rifiutava carne e frutti di mare, nutrendosi solo di mozzarella inacidita e cicorie bollite. La vecchia cantina sotto casa sua era grande, profonda, fresca, il pavimento in terra battuta, le pareti in pietra viva, appena illuminata dalla fioca luce di lampadine polverose e velate da ragnatele; aveva sempre la stessa temperatura in ogni stagione e conteneva botti di ogni dimensioni. Vi si accedeva dal Largo Plebiscito, lo spiazzo antistante al sagrato della chiesa di San Giuseppe. Non vi erano topi lì in fondo grazie alla sorveglianza della gatta più vecchia di casa, una soriana mezzo inselvatichita e con le mammelle pendule, che mise al mondo un esercito di mici di ogni colore e livrea, lasciandoci infine alla venerabile età di venti e passa anni. Un giorno, senza alcun preavviso, la signora grande - come tutti la chiamavamo - si volatilizzò, semplicemente. Il nonno sostava sulla porta della cantina seduto con i suoi due soci: il flemmatico "Ragioniere" e tale Scaringella, dalla nonna chiamato "Cappelluccio" per il suo cappello sempre troppo piccolo e portato sulle ventitrè.  In quella postazione fissa i tre discutevano di affari, maledicevano la siccità, facevano scongiuri contro la grandine, progettavano viaggi in giro per l'Italia meridionale a comprare uve, oppure al Nord a vendere vino, soprattutto in Trentino. Quando erano stanchi di parlare di affari guardavano in silenzio il via vai da e per la prospiciente chiesa, fumavano, seguivano con sguardi apprensivi le nuvole che si affollavano in cielo, si scappellavano al passaggio dell'anziano parroco, Don Peppino coscia coscia, così chiamato perché giungeva in chiesa e ne usciva sempre zoppicando vistosamente, a causa di una grave artrosi dell'anca. 
L'enologo era il nonno Luigi. I suoi uomini di fiducia, di cui ho un vivido ricordo erano Ziello, piccolo e tutto nervi, e Colino, un omone alto e forte. Ziello riusciva ad entrare, magro e snodato com'era, nelle enormi botti dall'angusta apertura, lo sportello che vi si apriva in fondo; era rapido, furbo come una volpe, velocissimo in bicicletta, riusciva a seminare i gabellieri del locale Dazio mentre faceva consegne in nero alle osterie del posto. Veniva sempre interpellato dal nonno sul tempo, sulla pioggia che non arrivava o che giungeva quando non ce n'era bisogno, sulle "inzolfature", i trattamenti delle vigne col solfato di rame.  Colino era un bonaccione dal collo taurino, spostava grossi pesi con le forti braccia, sembrava incapace di fare male a una mosca, ma guai a farlo infuriare: diventava molto pericoloso. I due erano rispettivamente le gambe e le braccia del nonno, erano gli oracoli tuttofare, senza i quali la produzione e il commercio del vino sarebbero andati in malora. Secondo la nonna Marietta i soci Cappelluccio e il Ragioniere erano esseri del tutto inutili, al contrario di quei due fedeli e indispensabili collaboratori.  La fotografia del nonno, opera dello stesso che aveva immortalato zia Lisetta, lo aveva colto nel fiore dei suoi migliori anni. Anche la sua immagine trasuda atmosfere da anni Venti, evoca storie mai raccontate sino in fondo e mi fa sovvenire quelle rare e piccate allusioni della nonna Marietta alle fughe del marito da giovane e del suo amore impossibile per la trapezista di un circo equestre. Addirittura, si raccontava con discrezione di una sua fuga a Parigi,  evento intorno al quale a un certo punto si ergeva una improvvisa cortina di silenzioso mistero. Che si fosse trattato di una semplice inserviente del circo, elevata da una generosa favolistica familiare al ruolo di trapezista, e che la fuga con lei si fosse arrestata a Bari, invece che a Parigi, non mi fu mai dato di appurarlo con certezza. Ma il nonno, all'epoca in cui mi si raccontavano le storie delle sue scappatelle, era già anziano, aveva i capelli grigi e la pancetta. Perciò non riuscivo ad immaginarlo giovane e perso dietro una fanciulla, per quanto avvenente. Tuttavia, siccome i geni non mentono, non è un caso che il nonno Luigi Piarulli avesse un fratello prete, del quale non ricordo il nome e che la famiglia chiamava sbrigativamente Zizì. Esonerato per vicende di lenzuola dai suoi compiti sacerdotali, ma non dall'uso dell'abito talare, Zizì previte lo abbandonava regolarmente non appena salito in treno a Trani per raggiungere le stazioni termali di tutt'Italia. Era lì che si mormorava avesse intense e peccaminose esperienze di vita laicale con insoddisfatte signore di buona famiglia o amori ancillari di più infimo rango. Ma anche in questo caso un'aneddotica familiare ostinata ed orgogliosa escludeva categoricamente che si potesse trattare di frequentazioni con donne men che borghesi. E' oscura l'origine del termine zizì per indicare un prete. A Corato molti preti venivano chiamati così e - strana coincidenza - alcuni di essi erano noti per tresche e amorazzi dai quali nascevano figli, anche da madri diverse. Forse il padre naturale dei figli del peccato veniva chiamato da questi zizì, che vuol dire zio. Da ciò la maliziosa estensione del termine a tutti i preti del posto? Non ne sono proprio certo, ma è la spiegazione che mi convince di più. Oltre al fratello prete dalle libertine consuetudini, il nonno aveva un altro fratello, zio Vito, e due sorelle, Rosa e Santina.  Zio Vito l'ho incontrato molte volte: uomo buono e accomodante, come il fratello. Dei suoi figli ne ricordo solo uno: Dino Piarulli. Zia Rosinà sposò un figlio del nonno Batù e fratello della nonna Marietta, zio Cataldo, detto anche Carlo o Carluccio.  La casa di zia Rosina era sempre aperta alle nostre "visite". Lei era allegra e ospitale, mentre zio Cataldo era un po' ombroso. Era un verdone sputato anche lui.  Avevano sei figli: Luigi sposò Lina Piccarreta, sorella dell'avvocato Salvatore Piccarreta; Renato fu avvocato; Salvatora (Dora), sposò un Arbore di Corato, Filomena (Menina) un certo Trotta, Ida (Piccina) andò sposa a Franco, un divertente odontotecnico dal carattere pacioso, e Luisina, l'ultima nata e la più bella delle quattro, andò in sposa a Franceschino De Robertis. Bella coppia. Erano tutti allegri come la madre, tranne Menina, che ricordo sempre un po' triste e appartata, silenziosa. Zia Santina, piccola e gentile, si maritò con un medico, il dottor Maggiulli, che tutti in famiglia chiamavano "Maggiulletto", forse a causa della sua piccola statura e il fare schivo. Vivevano a Corato anche loro, al primo piano in una casa buia in via Monte di Pietà, vicino alla chiesa di San Benedetto. Da quel balcone zia Santina si affacciava a salutare, senza mai farci entrare: Maggiulletto riposava, ogni volta. Era dolcissima, sempre carezzevole nei modi, affettuosa. Da molto anziani i due cambiarono casa e andarono a vivere in Via Dante. L'appartamento era a un secondo piano alto che si affacciava sulla chiesa di pietra bianca dell'Incoronata e dal quale zia Santina saliva e scendeva carica di spesa, confessandomi, quando l'aiutavo a portar su le sue borse, di essere "solo un po' affaticata". Spesso la vedevo affacciata al balcone, a seguire rapita le evoluzioni chiassose di di stormi di rondoni. Col marito, che la nonna Marietta considerava noioso e inutile, il nostro rapporto fu difficile, anzi inesistente.  Ebbero due figli, di cui la femmina, Grazia, fu farmacista a Corato per tutta la vita. Graziina aveva sempre qualche caramella per la tosse da regalare, tante moine da fare e vigorosi abbracci da distribuire a tutti i parenti che si presentavano in farmacia. Per lei rimasi sempre Luigino, anche quando ebbi moglie e figli. Il figlio maschio dei coniugi Maggiulli si sposò e visse lontano da Corato. Non l'ho mai conosciuto. La nonna Marietta morì a novantasei anni, di vecchiaia, all'Oasi, una casa di riposo di Corato sulla Via delle Murge, edificata da preti in stretta prossimità del tratturo, la grande via della transumanza di greggi e armenti tra Abruzzo, Molise e la Murgia Pugliese, emblema della storia quasi dimenticata dell'economia pastorale, in seno alla quale aveva prosperato la famiglia di suo padre nelle grazie e nel rispetto di potenti latifondisti meridionali.  A ottanta e passa anni si era trasferita a Bari, dove vivevano le figlie e alcuni nipoti, in un appartamento di Poggiofranco, in completa autonomia. In quell'appartamento si perpetuò il rito delle visite pomeridiana dei parenti. Poi, quando mia madre si trasferì da Bari a Corato, tornò alla cittadina natale e provò a vivere un po' con lei, un po' con le altre figlie. Ma la convivenza si rivelò difficile soprattutto con mio padre, anzi impossibile, a causa delle antiche ruggini e del comune autoritarismo. La scelta della casa di riposo per anziani fu inevitabile. Il nonno Luigi morì nel 1968, a settantotto anni per un tumore prostatico, subito prima che io mi sposassi, venti anni prima della moglie. Dei figli superstiti della nonna Marietta non è rimasto più nessuno. Mia madre, Menina, morì novantaseienne; se la portarono via gli anni e il dottor Alzheimer. Aveva sposato Cataldo Leo, insegnante di liceo, che se ne andò nel 1997 per una misteriosa e devastante malattia tumorale. Mio padre era amico di Zio Savino, il fratello di mia madre, e la frequentazione della casa della nonna aveva fatto incontrare i due colombi, che continuarono a tubare dalle terrazze dell'ultimo piano delle rispettive case separate da una via abbastanza stretta, quel tanto da consentir loro di non alzare la voce per dirsi parole d'amore.  Mamma fu maestra elementare dall'esemplare attaccamento al dovere e ai suoi piccoli discepoli, sino all'età della pensione. La scuola fu per lei grande sacrificio e inestimabile soddisfazione. Io sono il figlio più grande. Dopo di me vennero Riccarda ed Ettore. Una sorella di mia madre, zia Dorina, la più allegra delle figlie, ebbe una vita agra: il marito Mario Patruno, uomo mite ma sfortunato, la lasciò precocemente vedova con quattro figli ancora giovani, Domenico, Elisa, Luigi e Mariella. Zia Dorina era emotivamente fragile e aveva rischiato di morire dopo aver partorito Mariella nella casa della madre, a causa di una rara anomalia del parto. Accadde durante una festa del Patrono S. Cataldo. Mentre in casa Zietta, come la chiamavo io, lottava per la vita, sul piazzale antistante alla casa dei nonni e alla chiesa di S. Giuseppe girava da mattina a sera una giostra di luci e di gente al suono assordante e continuo di canzonette dell'epoca tra le disperate maledizioni del nonno Luigi. Zia Dorina si salvò per puro caso. Poi, con gli anni si ammalò di una forma ereditaria di cecità e morì per un tumore mammario. La terza, zia Bianca, rimase vedova del marito Aldino Casalino con tre figli, Peppino, Isabella e Marialuisa. Ebbe una vita molto difficile con la nonna Marietta: vivevano troppo vicine, allo stesso piano, porta a porta. Riempì di lacrime montagne di fazzoletti per le angherie e i dispetti della madre. Visse a lungo, buona e amabile, sempre un po' succettibile, depositaria di storie della famiglia e di ottime ricette. Zio Savino, il più grande dei figli fu medico radiologo molto bravo e stimato; da ufficiale medico partecipò nei Balcani al Secondo conflitto mondiale, rimase prigioniero dei tedeschi dopo l'Armistizio e venne poi liberato dai partigiani iugoslavi. Sposò la bella zia Mira, che portò con sé dalla Croazia e che lasciò vedova quando, ultraottantenne, sembrava ancora un giovanotto. La coppia ebbe due figli: Luigi e Maria Luisa (Marilù). Zia Mira se ne andò molti anni dopo il marito. Gino e Marilù non nascondono il patrimonio genetico trasmessoglio dai De Benedictis. Tutti i nipoti della nonna Marietta de Benedictis e del nonno Luigi Piarulli ebbero e hanno storie meritevoli di essere raccontate. Tutti ricevettero un'educazione all'onestà e al rispetto per il prossimo. Poi, la vita li disperse e ognuno prese la sua via. Chi è rimasto nella terra d'origine ha nutrito di certo più amore di me per la casa degli avi e per le tradizioni della Puglia e, soprattutto, più coraggio. Domenico Patruno, figlio di zia Dorina, ci ha lasciati da poco, mentre Luigi vive appassionatamente integrato in mezzo alla macchia mediterranea della Valle d'Itria, che lo ospita ormai da decenni. Custode infaticabile di un antico amore per la nostra terra di pietra e per i suoi frutti, per le tradizioni, le musiche, per il cibo e i suoi profumi, insieme alla moglie Cinzia fa parte di un gruppo folkloristico locale. Elisa non la vedo da quarant'anni. Mariella ha vissuto una vita difficile a Giovinazzo e ora si gode le due amate figlie nel ricordo del marito morto in tragiche circostanze. Marilù Piarulli è a Trani; Gino, il fratello, è architetto a Sarzana, dove vive con Nini, ma uno spirito d'amore contagioso, quanto testardo e tenace, decisamente verdoniano, lo ha risospinto in Puglia, non tra i sassi della Murgia coratina, bensì nel paesaggio più dolce dei trulli e degli ulivi di Locorotondo, dove trascorre le sue meritate vacanze. Sono sfuggiti ambedue alle grinfie del Covid-19 dopo lunghe e d estenuanti cure. Gli unici due della famiglia, insieme a mio figlio Cataldo che hanno contratto la malattia nel 2020. Peppino, Isabella e Marialuisa Casalino non hanno abbandonato Corato. Sono i miei indimenticabili compagni di giochi di Largo Plebiscito. Mia sorella Riccarda non ha tradito le sue origini. Per una metà facciuta (l'agnome di mio padre)  e per l'altra un po' verdoncina anche lei, tiene unita la sua famiglia con testardaggine, animatrice infaticabile di una puntuale convivialità settimanale con figli e nipoti, fedele ad un ruolo di nonna sempre più difficile. Mio fratello Ettore, prima divorziato, poi precocemente vedovo, vive in solitudine la sua cecità, nonostante abbia una figlia. Di lui si cura Riccarda col marito Carlo, per quel poco che Ettore le consente. Dai nipoti dei nonni De Benedictis-Piarulli nacquero figli, non tanti, tutti ormai adulti, molti di essi già padri e madri. Ognuno di noi nipoti diretti può raccontare la sua storia, da aggiungere a questo breve racconto sui nonni. Domenico però non potrà farlo.

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