Nonno Batù Luigi De Benedictis detto "U V'Rdone"
Pare certo che tra il mio bisnonno Luigi De Benedittis e i suoi quattro figli maschi non sia mai corso buon sangue.
E i figli, tranne uno, se n'erano
andati tutti per la loro strada, senza seguire le orme del padre.
Lui era un
roccioso e autoritario genitore che non ammetteva discussioni, critiche o
disobbedienze da parte
di alcuno, figli o sottoposti. Noto come don Luigi “U’ V’rdone” per il colorito che il
suo volto assumeva per la rabbia, puniva il furto di un agnello (parliamo di
proprietà di migliaia di ovini) col licenziamento in tronco del mariuolo.
Radicale e convinto, quanto loquace oppositore del regime fascista, non
scese mai a patti con alcuno, tantomeno con la politica del Ventennio. Negò “l’Oro alla Patria” e venne anche
bastonato da squadre di picchiatori, ma non cedette al Regime. Le prepotenze e
le violenze di quelli che vennero dopo la Liberazione non lo toccarono: U’ V’rdone morì prima di potervi
assistere o di subirle. Eppure sono convinto che, per il suo anticonformismo e la sua fiera indisponibilità ad ogni forma
di passiva accettazione di tutto quanto
ricordasse il potere politico, avrebbe preso bastonate anche dai liberatori.
Bizzarro talvolta nelle sue decisioni, ma di carattere fermo e deciso
anche con la sua prole, quando
un figlio adulto
gli chiese a brutto muso che gli venisse anticipata la sua parte dei
proventi della raccolta delle mandorle delle sue numerose proprietà, gliela
negò e irremovibile ordinò ai dipendenti di lasciare il raccolto sugli alberi:
che le mandorle cadessero pure e venissero mangiate dalla muffa e dalle pecore.
Non tollerava disobbedienze, né contestazioni di sorta. A tavola
pretendeva il silenzio più assoluto. Nessuno poteva parlare
o cominciare a mangiare prima
di lui che, a capotavola,
dirigeva la compagnia di figli e nipoti, dimostrando il suo disappunto con
poderosi colpi di bastone sul pavimento. Per questo io lo chiamavo nonno Batù.
Amava il cibo tradizionale, le verdure di campo, la carne di agnello, le mozzarelle appena fatte, la ricotta di pecora e il
formaggio pecorino. Non consentiva ad alcuno di lasciare qualcosa nel piatto.
Era grande amico
di medici e farmacisti, cui si rivolgeva per farsi curare
proverbiali coliche renali, ma non assumeva mai le medicine che gli
prescrivevano.
Visse per molti anni con una
governante-fantesca, la mitica Coletta.
In famiglia
circolava insinuante il sospetto che da giovane la serva fosse stata qualcosa di più
di una cameriera, visto che il nonno
era rimasto precocemente vedovo con un carico di sette figli, quattro maschi e tre
femmine. Del resto, cosa avrebbe potuto accadere tra un padrone di quei tempi e
una dipendente ancora giovane durante le lunghe permanenze alla masseria di
Giuncato spersa nella Murgia più aspra, dove si ritiravano da soli per lunghi
mesi? Io notavo strani sorrisi di mamma o delle zie, che probabilmente erano di
complice, ma discreta intesa. Tuttavia,
a noi nipoti non venne
mai raccontato tutto
di lei, se non che aveva un caratterino tutto pepe e che, invecchiata accanto al mio bisnonno, si era
rotta un femore ed era rimasta zoppa, ma neanche allora aveva smesso di servire
e di accudire con fedeltà e leale abnegazione don Luigi, come lo chiamava da una vita.
Morì prima di lui e non perse mai l’affetto le attenzioni di tutta la famiglia, che non l’aveva mai trattata da serva. Lascio
un’eredità verbale di modi di dire, di motti e di proverbi, di espressioni per
lo più inventati da lei, che ancor oggi riaffiorano sempre meno frequentemente
- con mio sincero rammarico - nel nostro lessico familiare.
Gran parte
delle notizie sul nonno Batù mi sono giunte attraverso i racconti della nonna Marietta e delle sue figlie,
che a Coletta avevano portato
il rispetto dovuto a una madre o a una nonna e da costei aveva
appreso frammenti di memorie sulla vita di quell’uomo speciale.
Da lei gli aneddoti
che vedevano protagonisti il trottatore Grillo,
il cane boxer, lei e don
Luigi. Si diceva che una volta,
sull’erta strada sterrata che
conduceva alla masseria di
Il cane, che pesava oltre quaranta chili, rimase a bordo col nonno. E accadde anche di peggio: quando Grillo e la elegante charrette vennero mandati in pensione, nonno Batù acquistò una fiammante autovettura coupé. La scena della faticosa salita si ripetè anche con l’automobile e Coletta rimase più volte a piedi per non “sforzare” la macchina.
Quando Coletta morì, nonno Batù, rimasto solo per la seconda volta
nella sua lunga vita, ebbe accanto a sé una nuova
governante, o badante, che dir si voglia: Rita, la ancor giovane signora
toscana propostagli dal figlio Michele, che in
Toscana viveva. Rita rimase al suo fianco sino alla fine.
U’ Verdone
morì a novantadue anni, nella notte
di un gelido inverno del dopoguerra,
per una banale influenza, o forse per una broncopolmonite, nella casa di Via Gravina
in cui si era ritirato da
qualche tempo.
La sera prima si era infuriato con la mite Rita che, memore forse
della fame patita,
aveva ritenuto eccessivo dover aprire un’intera forma di formaggio
pecorino per soddisfare i capricci di mia sorella Riccarda, che continuava a
reclamarne un pezzo frignando e battendo i piedi.
Rita obiettò dignitosamente che
non le pareva giusto cedere alle costose bizze di una bimbetta, ma dovette capitolare di fronte all’imperioso ordine del patriarca: andò in cantina e aprì una pesante forma di
pecorino per quella scatenata di appena due anni, che urlava da un’ora “gnà, gnà, gnà!”, il formaggio.
Ottenuto ciò che voleva,
Riccarda diede appena
un debole morso
all’oggetto della scenata e dei suoi desideri, per
scaraventarlo subito lontano con una smorfia di disgusto.
Rita, rossa in
viso, umiliata dalla violenza dell’ingiusto rimbrotto e dell’epilogo di quel
capriccio, aveva abbassato gli occhi e obbedito all’uomo volitivo e inflessibile
dal profilo aquilino e dal volto verdastro per l’ira, cui tuttavia era legata da filiale affetto
e da profonda riconoscenza per averla sottratta alla miseria di una
terra devastata dalla guerra e a una storia personale di sofferenza e di
delusioni, forse d’amore. Ma non sembrò accettare il rifiuto del prezioso cibo
da una mocciosa e si chiuse in un ferreo mutismo più eloquente delle parole.
Il nonno se ne andò quella stessa notte. Ne porto nitido con me l’ultimo
ricordo: i lineamenti tagliati con l’accetta, i capelli e i baffi candidi, gli
occhi chiusi, la fronte gelida come il marmo, il personaggio che sino alla sera
prima aveva atterrito la povera Rita per soddisfare i capricci di una nipotina,
ora dormiva stranamente vestito di tutto punto, le scarpe lucidissime ai piedi, incomprensibilmente disteso sotto un bianco velo con le mani
incrociate intorno a un rosario e a una croce - proprio lui che di preti e di
chiesa non ne voleva sapere - alla luce delle tremule fiammelle di quattro
grandi ceri bianchi, incurante della folla di persone che, in piedi o sedute
tutte intorno bisbigliavano e sussurravano preghiere e doglianze nella sua
stanza da letto, e alle quali non avrebbe mai e poi mai dato il permesso di
accedervi e di aprir bocca. Sulle sue gambe qualcuno aveva appoggiato il
cappello a larghe falde e l'immancabile bastone.
Per gli anni che vennero, dall’infanzia alla maturità, mi sembrò sempre
di riconoscerlo nella bella
statua bronzea eretta
in Piazza Plebiscito, a Corato, alla memoria
di Matteo Renato Imbriani, uomo politico del Regno, che aveva sostenuto e
voluto la costruzione di un'opera
grandiosa, l'Acquedotto pugliese, dando così "l’acqua alla Puglia
sitibonda”. Il nonno Batù lo venerava come un santo benefattore.
Anche il grand'uomo del bronzo aveva
come lui i baffetti con le punte
all'insù, il bastone
e un cappello a larghe falde.
Si assomigliavano - è proprio il caso di dirlo - come due gocce d'acqua. Ma forse ero solo io a crederlo.
*****
All'ultimo anno di Medicina
mi diedi da fare per guadagnare qualche
lira vendendo porta a porta
un'enciclopedia edita da Garzanti. La piazza più redditizia era Molfetta.
Arrivavo prestissimo in treno e lì nelle prime ore del mattino
andavo bussando a ogni porta della città bianca, proponendo quel
piccolo pozzo di cultura e di nozioni al modico prezzo di cinquantamila lire,
pagabili in comode rate. I migliori clienti erano donne; mamme e nonne
desideravano che figli e nipoti studiassero e divenissero professori, medici,
avvocati. I padri invece, li volevano imprenditori edili, proprietari terrieri
o ricchi pescatori. Lo strano era che i migliori affari erano quelli che
concludevo nella città vecchia, aggirandomi
tra i vicoli, passando sotto
i panni stesi
ad asciugare da una finestra
all'altra, i negozietti miseri
di pesce appena pescato e di verdure degli orti locali.
Al contrario la gente della
parte bene della cittadina si infastidiva e spesso mi chiudeva le porte in faccia.
Un giorno bussai a un austero portone e mi aprì una bella signora matura
dal petto generoso. Qualche filo bianco tra i capelli raccolti in uno chignon,
un volto da lineamenti nobili, Rita non stentò a riconoscermi, nonostante gli
anni trascorsi. Mi accolse nella sua grande casa, nella luce discreta del su
salotto, offrendomi un caffè e i pasticcini fatti con le sue mani. Con la nostra famiglia
aveva sempre mantenuto costanti contatti e di me sapeva
che ero diventato uno spilungone e che studiano per diventare medico.
Lei aveva sposato un vedovo benestante che le aveva donato affetto e
serenità, lasciandole una buona
eredità alla sua morte. Commerciava da alcuni anni in ricami
che provenivano da Castelfiorentino, era contenta del suo lavoro, non si
sentiva ospite nell'accogliente e colorita terra di Puglia, non aveva mai
dimenticato il nonno Batù.
Io mi profusi in uno sproloquio da venditore incallito, ma lei non ci fece caso. Alla fine, sorridendo mi strinse al petto
come si fa con un bambino e acquistò la mia enciclopedia, pur non avendo figli. A rate,
ovviamente, da quell’economa che era.
Chi lo sa, forse avrà pensato che, in fondo,
a un nipote di don Luigi De Benedittis,
detto il Verdone, non si poteva negare nulla.
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