L'Ospedale (parte seconda)
L'Ospedale (parte seconda)
Foto di gruppo e storie di sogni
Il reparto di Ortopedia dell'Ospedale era aperto ai visitatori negli orari consentiti dalla Direzione sanitaria, come per tutti gli altri reparti. L'accesso era libero invece per i parenti dei ricoverati solventi, per le persone gradite al primario, per i suoi amici e i conoscenti di riguardo.
C'era però un'ammalata che occupava già da un paio d'anni una stanza singola situata tra l'infermeria e lo spartano studio, in cui si ritirava il primario quando era libero dalla sala operatoria.
La stanza della povera, dolce Lina - affetta da cancro al seno e paraplegica, da tutti considerata una sorta di angelo sfortunato e condannato per qualche recondito motivo al ruolo di dolente ostaggio del datato nosocomio, davvero inadatto alla sua grave patologia - era sempre aperta ai degenti dello stesso ospedale, che andavano a farle visita per umana solidarietà, ai clienti del suo piccolo ristorante in collina - L'Eremo, che dominava quasi tutto l lago -, ai medici dell'ospedale, a tutto il personale ospedaliero non medico e al suo compagno di vita, il signor G.
Era costui un emiliano di Parma con alle spalle la storia confusa di una famiglia scombinata, la testa lucida e il naso pronunciato perennemente ostruito, quasi a riprova di un vantato quanto improbabile e mai dimostrato passato da pugile, le movenze di chi è sempre indaffarato e va di fretta, la mezza risata falsa e una immancabile battuta in tasca. Si professava socialista e antiquario, ma l'impressione era che la fede politica fosse un grimaldello per aprire alcune porte e che di antico ne capisse poco, dal momento che trafficava semplicemente in quadri e mobilia all'insaputa della loro legittima proprietaria, la remissiva e ignara Lena, destinata a non lasciare mai più l'ospedale. L'uomo assumeva di tanto in tanto un'espressione grave quando parlava della disgraziata compagna, si asciugava il naso e gli occhi con movimenti automatici e si diceva solo e triste, ma riprendeva l'aria dell'uomo finalmente libero non appena officiato l'ineludibile rito delle sue visite quotidiane.
Tra le donne, che più assiduamente si avvicendavano nella stanza dell'inferma, ve n'erano alcune particolarmente affezionate, come la caposala M., glaucopide dagli occhi enormi e sporgenti, il bacino da fattrice e le gambe da farfalla, gli atteggiamenti, le movenze e i sorrisi dell'infermiera da film platealmente orgogliosa di possedere un fascino irresistibile per chiunque, soprattutto per i medici, ben avviata a un nubilato cronico molto probabile, ma non precluso ad occasionali e piacevoli esperienze maschili da riservare ai f ine settimana e ai periodi di ferie.
Poi c'era la signorina N.
Ultima di sei figli di un operaio in ferriera, N. si era diplomata in ragioneria e, trovato impiego presso lo studio salodiano di un ottimo avvocato con un brillante futuro professionale già segnato, aveva salutato per sempre la brulla valle natìa e la famiglia male in arnese, che contattava di rado e di cui poco amava parlare. Giovane donna dalla figura piacevole e dalla voce lievemente roca con un timbro un po' maschile, il sorriso largo e sincero, una chiostra di denti lievemente separati l'uno dall'altro, indossava sempre pantaloni molto attillati e preferibilmente bianchi o di colori pastello. Era la moda dell'epoca. Frequentava con regolarità l'ospedale per far visita alla dolente Lina; lo faceva quando chiudeva lo studio legale, all'ora di pranzo e di cena, e si tratteneva a tenerle compagnia, a raccontarle la vita che scorreva fuori delle mura ospedaliere, le morti e le nascite, le nozze e le separazioni, le storie di tradimenti e di inganni - che parevano non risparmiare nessuno in quel bell'angolo di mondo -, la bellezza del lago e delle sue stagioni, l'attività dell'Eremo, che proseguiva, anche se in tono minore in assenza della padrona. La collocazione fortunata del ristorante e la buona volontà di una pettoruta e fedele cuoca storica, assicuravano infatti un discreto flusso domenicale e festivo di clienti abituali, che non mancavano mai di informarsi sulle condizioni di salute della proprietaria confinata in ospedale. Il signor G. svolgeva le mansioni di cameriere tuttofare, intrattenitore brillante e paggio dei clienti più influenti. Non veniva mai meno ai suoi doveri di oste vicario e riusciva a contrabbandare quella gustosa cucina casalinga, quasi fosse una "tre stelle" della guida Michelin, tra un bollettino ufficiale e l'altro sulle condizioni di salute della titolare assente. La notizia più confortante per l'ammalata era la certezza che la sua involontaria latitanza non avesse causato gravi danni all'attività, né allontanato i clienti migliori.
N. intuiva anche i dubbi e le angosce inconfessabili di Lena sulla fedeltà del signor G. Allora la distraeva da quei pensieri molesti, ricordandole con accenti rilassanti il panorama del grande lago visto da lassù, lo spettacolo dell'Isola nel golfo, il via vai dei vaporetti e delle vele che solcavano il blu intenso delle sue acque, l'imponenza dei monti che ne dominano la riva orientale. E Lina pareva che vedesse quei grandiosi scenari, ascoltava assorta e sorrideva, sospirava di tanto in tanto e talvolta prendeva sonno.
Il suo compagno signor G., sempre con l'aria da consigliere volpone esperto della vita, delle donne e delle loro debolezze più o meno segrete, non visto da Lina sfruttava ogni occasione per fare la ruota alla buona samaritana appena fuori dalla stanza, pur non nutrendo alcuna fondata speranza di successo o di attenzione: N. fingeva di non capire, di non sentire e si avviava con lunghe falcate e a testa bassa allo scalone dell'uscita.
Col tempo N. era stata notata anche dal primario, che immancabilmente, uscendo dal suo studio, si fermava a salutare Lina e spesso trovava la ragazza al suo capezzale, con la mano nella mano di lei, a guardarla e a sorriderle rassicurante.
Per una delle tante coincidenze della vita, lui era assiduo cliente dell'avvocato a causa dei molti problemi causatigli periodicamente dalla sua esplosiva iracondia, eppure quella giovane non l'aveva mai degnata neppure di uno sguardo sul suo posto di lavoro. Ora però, che se l'era trovata davanti nel suo reame, aveva indugiato con occhio professionale su quella figura femminile per niente malvagia e sulle forme messe in provocatorio risalto dall'aderente vestiario.
Pian, piano quei casuali incontri con N. in ospedale, o nello studio del legale, avevano fatto scoccare tra i due la scintilla dell'amicizia, scivolata poi insensibilmente in una incostante frequentazione extra ospedaliera responsabile di un piccolo, ma doloroso incendio nel cuore indifeso di N. Il primario, nonostante i suoi modi compiti e apparentemente disinteressati, le aveva da subito tessuto intorno una insidiosa tela di ragno fatta di promesse e di lusinghe, nonostante avesse già in corso una relazione extraconiugale con una sua giovane paziente che, in un gravissimo incidente d'auto, aveva perduto il fidanzato e riportato molteplici fratture agli arti, rimanendo a lungo degente nel reparto di ortopedia per una interminabile serie di interventi chirurgici.
Una volta dimessa dall'ospedale, quella brunetta aveva riservato una speciale riconoscenza al suo salvatore, bussando spesso alla porta del suo studio verso mezzogiorno. Arrivava con fare spigliato, agitando le sue rotondità racchiuse in un corto e leggero tubino, o mettendole in prepotente evidenza sotto una vertiginosa minigonna svolazzante, incurante delle numerose cicatrici. Poi, si intratteneva per circa un'ora col suo benefattore, ovviamente per accurati controlli clinici su un divano di similpelle nera, che fungeva sia da lettino da visite, che da confortevole e complice giaciglio per l'instancabile chirurgo.
Durante quell'ora nessuno poteva disturbare il primario asserragliato dietro la porta dello studio chiusa a doppia mandata, ad eccezione della caposala M., autorizzata a farlo solamente per urgenze indifferibili ed esclusivamente per telefono. A chi le chiedeva del primario, la comprensiva collaboratrice rispondeva senza esitazione: "Sta visitando". Ma l'agitarsi di ombre, che si coglieva attraverso lo specchio di vetro smerigliato della porta, avrebbe creato qualche perplessità a chiunque fosse riuscito ad avvicinarsi al vigilato sancta sanctorum.
N. saltava anche il pranzo, pur di veder uscire, subito dopo la sculettante bambola, il volubile artefice della sua lenta agonia sentimentale, senza potergli rivolgere neppure la parola in pubblico per non dare nell'occhio. Così N. si era praticamente messa in coda e pareva attendere paziente la f ine di quella strana serie di lunghe e minuziose visite di controllo alla disinibita e miracolata rediviva, per prenderne il posto nel cuore duro del professore, come le era stato più volte promesso.
Quell'estate eravamo in tre medici secondari: il dottor. D., piccolo, dal viso giallastro e grinzoso, inguaribile geloso della moglie compulsiva esibizionista da ringhiera, da lei sottoposto a puntuali cure a base di percosse e di insulti, ma al tempo stesso innamorato perso della ferrista dagli occhi azzurri e distanti; il sottoscritto, ammogliato e padre di due rampolli, e il dottor B., torinese, piacevole persona, decisamente miope, sportivo sciatore e canoista, anche lui ammogliato, con un figlio già nato ed uno ancora in pancia della moglie.
Anche quest'ultimo, con il quale mantengo tuttora solidi e cinquantennali rapporti amicizia, prese a frequentare la stanza della infelice Lina, che si andava vieppiù trasformando in un luogo di ritrovo abituale, un polo di socializzazione, in seno al quale la presenza e le voci di giovani sani sembravano dissolvere il grumo di sofferenza senza sollievo dell'ammalata. Così anche il mio amico B. conobbe N. e con la sua innata giovialità entrò nelle attenzioni della giovane sconsolata.
N. era ormai amica di tutti, anche mia e di mia moglie, che ne raccoglieva le confidenze e aveva scoperto in lei una compagnia attiva, sempre generosa e disponibile in caso di necessità. Tuttavia, neppure le amicizie potevano aiutarla a risolvere il problema di una relazione prevedibilmente effimera e sempre oscillante tra i frequenti momenti di totale indifferenza e le rare manifestazioni di interesse da parte del buon primario, che aveva tutta l'aria di aver già colto il frutto dei suoi assedi, di avergli dato un profondo morso e di averlo gettato via già dopo il primo boccone.
Il dottor B. le fu vicino, colse il senso del suo malessere e le diede qualche consiglio, non ultimo quello di abbandonare la fila delle aspiranti ai volubili favori primariali.
N. tentennava, ma il dottor B. non demordeva, da buon pacioso ma ostinato mastino qual era. Come si dice, gli amici si vedono nel momento del bisogno e N. si trovava proprio nella situazione in cui qualcuno doveva aiutarla.
Come spesso accade, però, tra un improvvisato psicologo dilettante e la sua paziente, nacque qualcosa di diverso da una platonica e disinteressata amicizia, di cui nessuno dei due fece trapelare i particolari, se non velatamente a me e forse a Erica.
Infine N. si decise a troncare la precaria relazione con il primario, il quale però dovette subodorare il decisivo contributo dato dal dottor B. all'epilogo della vicenda.
In fondo, a lui, incontrastato sultano lacustre con la passione per le giovani donne, oltre che per la chirurgia ortopedica e il successo professionale, due fanciulle innamorate, volenterose e disponibili gli avrebbero fatto comodo fuori e sotto le lenzuola, visto che i rapporti con sua moglie, di qualche anno più grande di lui, economicamente autonoma e stanca del turbinio di amanti, in cui si vociferava che il marito si fosse infilato, erano al lumicino.
Col primario, inoltre, quelle giovani si erano mostrate poco esigenti e molto disponibili non solo alle gioie dell'intimità, bensì anche al disbrigo di qualche faccenda noiosa, come procurare documenti, fare versamenti in banca, oppure - era questo il caso di N. - seguire da vicino alcune cause in corso, senza che fosse lui costretto a disturbare di continuo il legale, puntuale nel dargli soddisfazione, ma sempre sollecito nel farsi onorare anche gli aggiornamenti verbali e i pareri telefonici sui percorsi delle pratiche affidategli.
E il professore, taccagno per natura, aveva trovato il modo di risparmiare, proprio grazie a N.
Il dottor B. avvertì allora una certa freddezza da parte del primario, che nulla prometteva di buono per il futuro, e decise di trasferirsi in un altro ospedale per evitare lo scontro diretto, che era già nell'aria da qualche tempo.
Fu così che, di nuovo sola da quando era andata via dalla famiglia, N. si trovò ancora più sola. Mia moglie ed io le fummo vicini, la portammo con noi persino in Puglia nel bollente viaggio notturno di un Ferragosto impazzito lungo strade e autostrade affollate da code di vacanzieri. Purtroppo quelle ferie vissute nella semplicità genuina delle abitudini pugliesi, sotto i cieli della Murgia e a contatto col nostro mare non servirono a guarirla.
Al rientro lei venne avvicinata ancora una volta dal primario e stavolta non cedette.
Passarono i mesi, ma la solitudine non faceva più per lei.
Un giorno mi confidò che si trovava bene con il suo capo, l'avvocato maturo e gentile, educato, rispettoso.
Qualche tempo dopo finì per confessarmi che stava nascendo qualcosa tra loro due, ma niente di più che una speciale simpatia e una reciproca, solida f iducia, come un intenso e caldo affetto tra padre e figlia.
Nel frattempo il dottor B. si era fatto sentire e lei gli aveva detto di patirne l'assenza. Di quella nuova situazione aveva parlato anche con lui, che si era dichiarato neutrale e non in grado di consigliarla nel merito.
Era evidente che N. si dibatteva tra due diverse prospettive di rapporti sentimentali già in partenza instabili e complicati. Oltretutto il dottor B. era diventato padre per la seconda volta, aveva vinto un concorso presso l'ortopedia di un ottimo ospedale piemontese ed era andato a vivere in una bella casa sulla prestigiosa collina della sua città. La lontananza avrebbe fatto miracoli.
Prima che io lasciassi l'ospedale per trasferirmi dissennatamente in un centro ospedaliero regionale pugliese, N. mi raccontò che l'avvocato alla fine le aveva chiesto di diventare la sua compagna. Non l'avrebbe mai sposata: nella sua posizione di grande prestigio, prossima ai vertici dell'avvocatura italiana, una separazione non sarebbe stato il miglior propulsore per la sua carriera. Le avrebbe trovato un posto di lavoro ben remunerato e una casa appena fuori città, dove incontrarsi regolarmente. Ferie insieme nei posti più belli del mondo e amore eterno. Parola di un uomo d'onore.
Non piangeva N. mentre mi confessava a quale futuro si accingeva a consegnarsi; accennava ogni tanto un mezzo sorriso e un lieve tremito le muoveva il mento e il labbro inferiore. Parlava in dialetto, sommessamente, come sempre. Ci stava pensando, diceva, ma prima doveva guarire di qualche recente ferita. N. aveva un nome non comune, che non rivelo e che ha a che fare con i sogni. Per lei era naturale sognare, quasi un destino scritto nel nome. E un altro sogno era lì, a portata di mano, seppure ancora abbastanza confuso.
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Ci ritrovammo tutti e tre, lei, il dottor. B. e io, l'anno successivo alla mia partenza: B. e io eravamo stati convocati come testimoni presso il Tribunale del capoluogo di provincia in una causa intentata dal primario al presidente dell'ospedale, colpevole fino alle orecchie, che tuttavia venne assolto con formula piena grazie all'influente patrocinio di un avvocato di grande peso politico, futuro segretario della DC nazionale. Noi due, insieme ai tanti altri testimoni a carico del presidente democristiano, venimmo bistrattati come delinquenti comuni da un giudice monocratico arrogante e maleducato. Io ero stato minacciato di arresto in aula solo per aver distolto lo sguardo dalla sua faccia verdognola mentre mi interrogava e mi insultava. Per il nostro disturbo venne stabilita dalla Giustizia italiana una sorta di umiliante elemosina, che ci rifiutammo di ritirare.
Festeggiammo invece il nostro breve incontro, rimanendo insieme a cena per qualche ora. N. si unì a noi, come da accordi.
Raccontò che era ancora sola, parlò della povera Lina e dell'Eremo, avviato ormai irrimediabilmente a chiudere i battenti da quando la cuoca di sempre se n'era andata in pensione. Del professore neppure un cenno.
La serata era dolce e cenammo all'aperto in un ristorante sul lago, al lume di candela. Il placido respiro del Garda muoveva le mille fiammelle di quel giardino. Ci sembrò di rivivere i vecchi tempi, in fondo non troppo lontani. Poi ciascuno, sciolti gli abbracci e consumati gli ennesimi saluti, riprese la sua strada, io per Bari, gli altri due non so per quali destinazioni, anche se certi sguardi d'intesa, saettanti come lampi nella inquieta luce delle candele, non mi avevano lasciato dubbi.
Ci penso spesso a quell'incontro e mi sento in colpa. Quando tornai a casa mia moglie mi accolse sconsolata: i miei figli, Ernesto prima, Cataldo poi e infine lei stessa, si erano presi i pidocchi. Rimasi come pietrificato dalla scoperta di ospitare tra i capelli torme di voraci insetti e capii di colpo cos'era quel prurito alla nuca che mi aveva infastidito la sera prima al ristorante.
Ancora oggi mi perseguita un pensiero molesto: quello di aver inconsapevolmente regalato proprio quella notte, insieme agli abbracci e ai saluti, plotoni di pidocchi a N. e al nostro comune amico B., amanti senza futuro per l'ultima volta.
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Qualche anno dopo mia moglie ed io andammo a casa di N. Baci e affettuosi abbracci. Sulla faccenda dei pidocchi acqua in bocca. Trovammo una bella signora sola, vestita con insolita eleganza, l'amica di sempre, che parlava ancora in stretto dialetto con la sua voce un po' roca dal timbro leggermente maschile.
Abitava in un anonimo sobborgo della città, sulla strada per una valle laboriosa, in un accogliente appartamento a piano terra, un nido arredato con dispendioso gusto. Era stata assunta presso una importante industria come segretaria del grande capo.
Ci raccontò senza enfasi dei viaggi in compagnia dell'avvocato, dei frequenti soggiorni romantici negli alberghi più prestigiosi di Roma e di Venezia.
Poi ci descrisse anche i mesti ritorni alla realtà da quelle evasioni da sogno. Al di fuori dei viaggi, le sue serate le trascorreva - molte inutilmente - in paziente attesa di lui, dell'avvocato ormai all'apice della carriera e stracarico di impegni professionali e sociali, ma sempre irremovibile nella decisione di non disgregare la famiglia.
Si diceva felice della sua scelta la nostra cara amica, ma non le credemmo: il sorriso non era più il suo e gli occhi rivelavano suo malgrado una inconfessabile amarezza, l'ingrediente più subdolo della delusione.
Ma forse era soltanto rassegnazione all'immodificabile ruolo di eterna seconda della fila. Nulla di più.
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Il primario intanto, aspirante direttore della importante divisione di Ortopedia di un grande ospedale lombardo, veleggiava verso una nuova, ennesima avventura.
Ma di questo tratterò un'altra volta.
Luigi Leo
Jesolo, Agosto 2022.
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