L'Ospedale (parte prima)
L' OSPEDALE (prima parte)
L'Ospedale si affacciava direttamente sul lago e dalle sue terrazze si pescavano piccole ma gustose anguille durante le notti senza luna durante i momenti liberi del servizio di guardia.
Altri animali meno viscidi ma più pericolosi si aggiravano invece nei suoi corridoi e nelle corsie.
Vi giunsi come giovane assistente non titolare assegnato alla Divisione di Ortopedia e Traumatologia, iscritto al Corso di specializzazione presso l'Università di Verona, sede staccata di Padova, e non ancora specializzato. Il direttore del Corso, Professor De Bastiani, aveva preteso che lavorassi stabilmente presso un reparto specialistico di sua
ducia per ottenere la rma annuale di frequenza. Così, avevo lasciato la condotta medica di Canazei e mi ero trasferito in ospedale.Il reparto aveva un gran numero di posti letto e, da quando era giunto il nuovo primario, un professore appena quarantenne con una lunga e corposa esperienza chirurgica maturata in giro per l'Europa, aveva riguadagnato la
ducia della gente del posto e delle valli della provincia. Il traf co lungo la strada della riva Ovest del lago, il turismo lacustre, alcune industrie assicuravano un usso continuo di feriti bisognosi di cure ortopediche, soprattutto chirurgiche.I medici erano solo tre: il primario, e due assistenti - uno siciliano e l'altro torinese. Un quarto collega si era licenziato da circa un mese per dissidi col primario ed era andato a lavorare nell'Oceano indiano. Io ne presi il posto.
Lavoro duro, sala operatoria praticamente quotidiana con inizio alle sette del mattino e
ne quando capitava, sala gessi sempre affollata, Pronto soccorso frequentato come un mercato rionale.Venni subito inserito nei turni di pronto soccorso ospedaliero di 12 ore e accettai di sostituire colleghi di ogni reparto che non avevano bisogno come me di fare straordinari. Oltre ai turni di guardia per tutto l'ospedale dovevo ottemperare anche a quelli di reperibilità di reparto. In pratica tornavo a casa soltanto per dormire, se non ero di guardia di notte, cambiarmi, fare una doccia e dare un boccone.
Avevo trovato casa in Riviera: una villa a due piani non molto ben in arnese, ma con un giardino in pendio ben recintato, dove i miei due boxer potevano correre liberamente.
Alcune piante: alberi di mandorlo, oleandri, qualche cipresso e un cespuglio profumatissimo di calycanthus proprio vicino al misero cancello di ingresso, sui piloni del quale si arrampicavano piante sempreverdi dai
ori rossi a trombetta, regni incontrastati di grosse formiche nere.L'af
tto era abbastanza alto, lo aveva preteso senza sconti di sorta il sig.Cohen, il ricco ebreo veneziano padrone di casa.Mia moglie aveva ventidue anni, i miei
gli rispettivamente tre ed uno. Il posto era salubre, fuori dal traf co, distava diversi chilometri dall'Ospedale, ma soltanto una cinquantina di metri dal magni co Lungolago.Non avevamo il telefono e quando ero reperibile doveva venire un'ambulanza ad avvisarmi. Ma ero giovane e abituato al duro lavoro di montagna, dove ero stato medico condotto e uf
ciale sanitario impegnatissimo di giorno e di notte, senza un giorno di riposo, senza ferie pagate. Erano tante le chiamate notturne soprattutto d'estate col turismo e d'inverno in tempo di epidemia in uenzale, o quando c'erano donne che partorivano contemporaneamente in due case diverse. L'unica ostetrica del paese non aveva il dono dell'ubiquità.Lungo il percorso obbligato per recarmi all'Ospedale passavo accanto a un famigerato, emblema di un periodo storico imbarazzante, che offriva al lago la faccia più bella con i suoi giardini e alla strada statale, quella che percorrevo io, una facciatatetra, grigia ed inquietante.
Io lo guardavo appena e proseguivo, francamente turbato da quella presenza lugubre, che faceva a pugni con l'ambiente sereno, placido e riposante della cittadina, posto di villeggiatura adatto al divertimento notturno con i suoi locali sul lago e la più fornita wiskeyteca del Nord est -, il cui gestore dai grandi baf
rossicci con le punte in giù e le basette alla Cecco Beppe, faceva una pubblicità televisiva a una bevanda analcolica stavolta, in coppia con la una celebre cantante dell'epoca, oggi introvabile nelle teche RAI.In quel piccolo bar all'estremità nord del Lungolago si ritrovava di notte il jet set dell'industria e della
nanza lombarda, giovani leoni gli di papà che parcheggiavano Ferrari e Lamborghini cariche di spumeggianti belle donne. Il meno ricco aveva la Porsche. Il pezzente ero io con la mia Alfa 2000.Insomma, l'ambiente lacustre si annunciava godereccio e spensierato, allegramente intenzionato com'era a seppellire nelle acque del lago le torbide vicende del passato.
Il primo approccio con l'ambiente di lavoro non fu però così rassicurante.
Il collega siciliano, al terzo giorno della mia presenza, mi pregò di sostituirlo nel turno di guarda che iniziava alle 20.00. L'altro collega aveva chiesto un giorno libero e non poteva farlo. Non esitai, vedendolo ansioso e agitato. Si copriva il volto con le mani, come uno gravemente angosciato, prossimo alla disperazione.
Mi spiegò, tra qualche singhiozzo e dandomi le spalle, che aveva un problema con la moglie, di cui era gelosissimo; c'era stato un ennesimo alterco e non voleva che lei andasse a trovarlo in ospedale - abitavano al terzo piano di un palazzo nuovo proprio di fronte all'ingresso del nosocomio -e che continuasse con le sue scenate di gelosia davanti a pazienti e al personale infermieristico. Perciò, lui sarebbe rimasto in ospedale, chiuso a chiave nell'ultima stanza del reparto solventi, ma io non avrei dovuto rivelare a nessuno - tantomeno alla moglie nel caso si fosse presentata in ospedale -il suo rifugio di quella notte.
Se avessi avuto bisogno del suo aiuto, avrei bussato tre volte alla porta e lui mi avrebbe aperto, ma solo per impellenti necessità di lavoro.
Finii coi pazienti in reparto alle 18,00, feci un salto a casa per avvisare mia moglie dell'improvviso impegno e mi presentai puntuale alle 20,00 a sostituire il collega.
La serata sembrava
lare tranquilla: qualche chiamata dal reparto di medicina, pochi accessi al pronto soccorso.Solo un signore anziano mi aveva creato qualche problema: gli era entrata una farfallina in un orecchio e, per quanti tentativi avessi fatto per stanare l'insetto attaccato al martoriato timpano, non ero riuscito nell'impresa, sempre più ardua e pericolosa, fallita sino ad allora anche con ripetuti lavaggi auricolari mediante uno schizzettone gigante e l'instillazione di olii vari e di anestetici nel condotto uditivo. L'insetto aveva deciso di rimanere dov'era e il poveretto lamentava confusione e vertigini.
Soltanto verso le nove ero riuscito con un'acrobazia da consumato speleologo a staccare a pezzi l'intruso dalla profonda membrana timpanica arrossata, senza lederla.
Dovetti sottostare all'abbraccio e al bacio sudaticcio del miracolato e accettarne le promesse di copiose preghiere serali in mio favore.
Poi, rasserenato e contento di me stesso, decisi di prendere possesso della stanzetta del medico di guardia, situata al piano terra.
Avrei telefonato in cucina per farmi portare la cena e poi mi sarei disteso a riposare vestito e pronto a qualsiasi chiamata.
Appoggiai una mano sulla maniglia, pregustando qualche momento di tranquillità, e spinsi l'esile porta. Sorpresa: proprio lì davanti a me si andava consumando una incredibile scena.
Una procace signora bruna, vestita con uno scollato e leggerissimo abito blu a grandi pois, sedeva sulle gambe di un signore sulla cinquantina dal grande naso adunco, procedente all'incrocio di due cespugliose sopracciglia, e le lunghe basette nere, nostalgiche testimonianze di una capigliatura persa da tempo per l'effetto paradosso di una sovrabbondante produzione di testosterone.
I due non si erano accorti di me e la donna smaniava, sospirava e agitava il capo, farfugliando incomprensibili parole e traendo
ebili lamenti, mentre la mano destra dell'uomo frugava nervosa e impaziente sotto la gonna parzialmente sollevata, che metteva a nudo un muliebre quarto inferiore sinistro di tutto rispetto.Certo di aver sbagliato indirizzo, feci per chiudere la porta, risoluto a ritirarmi quatto quatto verso l'atrio dell'ingresso ospedaliero e la scalinata che portava a i reparti, senza disturbare le complicate manovre della coppia. Ma proprio in quel momento lei si accorse di me, strappò la mano di lui dagli anfratti tra i quali si era trattenuta inquieta sino ad allora e, divincolandosi da un tentativo di abbraccio, si alzò di scatto, imprecando come un'ossessa. "Porco, maiale" - gridava scuotendo il capo e scompigliandosi i capelli -
Urlava disperata, la signora in blu e ansimando faceva andare su e giù per l'ampia scollatura un davanzale prorompente e pericolosamente traboccante. Urlava, anzi ululava e mi guardava storto, dando del maiale e del guardone anche a me, che non ero intervenuto a salvarla da suo in
do violentatore.Interdetto e quasi divertito al tempo stesso, fui colto dalla preoccupazione che quella chiassata avesse già catturato l'attenzione del portiere e degli infermieri di turno. Purtroppo, già alcuni pazienti si andavano affacciando alla balaustra in cima allo scalone, contenti di quella insperata interruzione della monotonia ospedaliera e dei suoi discreti silenzi.
"Sono la moglie del dottore D. e voglio parlare con mio marito", gridava a squarciagola la donna. "E' lui il medico di guardia per questa notte e deve essere da qualche parte. Ditemi dov'è imboscato, forse in qualche ripostiglio a palpeggiare la sua infermiera preferita, e che venga d'urgenza a difendere il mio onoooore!"
Fui fedele alla consegna del silenzio e sperai in cuor mio che la signora, al culmine di quel parossistico stato di agitazione psicomotoria, cadesse nel più classico dei deliqui. Perciò mi avvicinai a lei nella eventualità di doverne attutire la propizia caduta al suolo, ma venni subito fatto segno di improperi e di tentativi di colpirmi con la sua borsetta.
"Guardate", diceva alzando lo sguardo implorante e il viso rigato di nero dal trucco che si andava sciogliendo per le lacrime e il sudore, "anche questo porco in camice bianco vuole abusare di me! Chiamate la polizia, i carabinieri, chi volete, ma aiutatemi. E ditemi dove posso trovare quel vigliacco di mio marito".
Arrivò dopo poco, chiamata dal centralinista dell'ospedale, l' Alfa nera dei Carabinieri e la vaiassa alla vista dell'auto si precipitò tra le braccia di un giovane e atletico agente, che l'accolse e la sorresse volenteroso, apparentemente imbarazzato per l'abbraccio e per l'esteso e imprevedibile stretto contatto con tutto quel bendidìo.
La prosperosa signora raccontò ad alta voce dei tentativi di violenza subiti da parte mia e dal personaggio rimasto in piedi nel frattempo in mezzo al corridoio, con le mani in tasca, come se la cosa non lo riguardasse affatto, evidentemente contrariato dalla mia malaugurata intrusione, mentre era tutto intento a un'opera di carità, quella di ricucire un rapporto coniugale deteriorato, facendo ricorso ad una consolidata tecnica di sedazione di giovani donne in caso di attacchi isterici da protratta astinenza.
Poi l'invasata si calmò, esalò un paio di profondi respiri e si abbatté supina sul cofano dell'Alfa Romeo, con le gambe penzoloni, il collo bruno offerto al cielo stellato, i capelli scarmigliati, le braccia abbandonate quasi fosse croci
ssa, le cosce scomposte e lievemente divaricate, scoperte no all'elegante vestiario intimo di pizzo nero, i globi oculari rivolti verso il parabrezza dell'auto in modo da lasciare scoperte solo le sclere bianche.I passanti curiosi e intimoriti sussurravano che ormai la poverina aveva rivoltato gli occhi.
I carabinieri mostravano un evidente imbarazzo e chiedevano che qualcuno facesse qualcosa e rianimasse la donna svenuta, senza avere il coraggio di toccarla.
Non feci in tempo ad avvicinarmi a quella che sembrava una bambola rotta dal collo spezzato e dagli arti scomposti, che le gambe inerti ripresero ad agitarsi, minacciando pericolosi contatti con il mio incolpevole inguine. Un signore basso e bianco di capelli si avvicinava intanto all'auto degli agenti. Schioccarono allora come nacchere due paia di tacchi battuti all'unisono, due mani andarono tese come coltelli alle visiere e si udì nell'irreale silenzio fattosi all'improvviso un ossequioso "Agli ordini, signor Presidente!" "Finalmente è arrivato anche lei, signor Presidente, a salvarmi da questi due energumeni", pigolò la moglie del collega nascosto.
"Ditemi dov'è il medico di guardia, il dottor D.", tuonava ripetutamente il presidente rivolgendosi a me. "E lei, dottor non so chi, mi dica che fa a quest'ora in ospedale". "Sostituisco il dottor D., signor Presidente. Non stava bene e gli ho fatto questo favore".
"Ah, è così? Allora controlliamo il cartellino della sua presenza. Venga anche lei direttore". Direttore…? Ero nei guai
no al collo. L'uomo dalle mani in tasca seguì docile il presidente da buon direttore amministrativo no al gabbiotto dell'orologio Solaris e dei cartellini.Ne vennero fuori dopo un tempo che mi parve eterno, il presidente agitando furiosamente il mio cartellino e il direttore scuotendo la testa e dicendo che certe cose, come lasciar correre le ore di presenza per tutto il giorno senza timbrarlo all'uscita e ritimbrarlo al rientro serale, rappresentava un danno per l'ospedale, un tentativo di farmi retribuire ore di lavoro di fatto mai lavorate. Era un riprovevole atto truffaldino meritevole di una pesante sanzione o del licenziamento in tronco.
Mi scusai allarmato, adducendo delle scuse credibili: avevo dimenticato di timbrare il cartellino all'uscita - era vero-, perché non avevo avuto precedenti esperienze di simili pratiche Non venni creduto. Mi venne invece intimato ancora una volta di rivelare il nascondiglio del dott.D., pena gravi provvedimenti nei confronti di ambedue. Un evidente ultimatum.
Venni meno alla promessa fatta solo per cause di forza maggiore e accompagnai il presidente dal dott. D, mentre il direttore amministrativo si attardava ad arte lungo i corridoi, per poi darsi, non visto, alla macchia.
Il dottor D. confermò la mia versione dei fatti per trarmi d'impaccio e giusti
cò il suo gesto sciorinando un rosario di aneddoti a sua discolpa. Aveva sposato quella siciliana, belloccia e più alta di lui di venti centimetri, perché follemente innamorato. Avevano due gli, una femminuccia ed un maschietto. Ma quando sembrava che tutto andasse bene, la moglie aveva cominciato a comportarsi in modo strano. Ad esempio, lei usciva tutte le mattine in balcone con indosso la sola camicia da notte trasparente o con una vestaglia aperta ampiamente sul davanti e nulla sotto di essa, mentre gruppi di operai al lavoro su alcune impalcature ai piani di un palazzo adiacente si godevano lo spettacolo gratuito tra apprezzamenti ed esplicite proposte. Aveva poi cominciato a vestirsi in modo strano, molto scollata, sì da mettere in evidenza il provocante petto da popolana scostumata. Si era tagliata i capelli e fatta delle meches a forma di pallini gialli.Tutti comportamenti inaccettabili per un uomo del Sud e per un professionista stimato. Aveva tentato, lui, di calmarla, di spiegarle, ma lei si ostinava a giusti
carsi, accusandolo di tradimento con una delle infermiere dell'ospedale. "Le giuro, signor Presidente, che non ho alcuna relazione con infermiere dell'ospedale. Ma lei non ha voluto sentire ragioni, e ieri, durante l'ennesimo alterco notturno, mi ha aggredito a pugni, calci, schiaf e graf ".E, così dicendo, si scoprì le braccia dilaniate da gli artigli della moglie, la fronte e il volto tumefatti e mantenuti sempre in penombra sino ad allora, il collo segnato da escoriazioni ed ecchimosi. Il Presidente annuì, ma promise pesanti misure nei confronti di noi due. La signora nel frattempo si intratteneva coi giovani carabinieri, appoggiata al cofano lucido della loro vettura di servizio con atteggiamenti e pose degne della migliore Marilyn Monroe.
La notizia della rappresentazione teatrale di quella sera fece il giro dell'ospedale e dell'intero paese nello spazio temporale di un baleno. Il primario ne venne informato subito e prese le parti del malcapitato con una telefonata al presidente e al direttore amministrativo: le sue richieste di assoluzione erano ultimative e non attendevano risposte. Difese me e ri utò qualsiasi provvedimento sanzionatorio nei miei confronti. Sostenne inoltre che la signora D. non era più persona gradita nel suo reparto.
Soltanto il mio collega torinese non era stato informato dell'accaduto e il mattino successivo, quando fummo tutti insieme nel reparto lavaggio e sterilizzazione delle mani antistante la sala operatoria, chiese con fare burlone al collega D.: " Ehi, che hai fatto ieri mentre non c'ero, sei caduto in un cespuglio di rovi?". Il silenzio più imbarazzante, rotto soltanto dallo sciabordio dell'acqua corrente e dal fruscio degli spazzolini sulle nostre unghie, scese sul reparto operatorio.
Il dottor D., bardato come un astronauta e con gli occhiali inforcati celava agli occhi di tutti i presenti il segreto delle notturne rappresaglie in famiglia al quarto piano della casa di fronte.
Soltanto la ferrista, una piccolina rotondetta con due grandi occhi azzurri e distanti, spalancati come fanali sotto la fronte coperta dalla bandana verde, lanciava furtivi e interrogativi sguardi al dott. D., che di tanto in tanto alzava gli occhio acquosi dal campo operatorio verso di lei, azzardando di nascosto dal primario impercettibili movimenti di assenso col capo.Come a dire che gli dispiaceva, ma che le aveva prese ancora una volta di santa ragione.
Le cose nella vita cambiano col tempo, si sa, e anche il dottor D. e sua moglie trovarono il modo di convivere, anche per il bene dei pargoli, due statuine vestite sempre come
gurini e con ai piedi scarpe rigorosamente laccate nere, d'estate e di inverno. La signora nse di dimenticare l'increscioso episodio al quale avevo assistito e prese a trattarmi con molta familiarità e ducia, forse sperando in una mia fattiva intermediazione nei complicati rapporti col marito.Un giorno, quando sembrava che i due avessero ritrovato la pace coniugale - ammesso che l'avessero mai avuta - ricevetti una telefonata mentre ero a riposare per un attimo nella stanza del medico di guardia. Il centralinista mi passava la telefonata di una signora che parlava male e chiedeva aiuto perché la stavano strozzando.
Era lei, diceva con voce roca che il marito tentava di soffocarla proprio in quel momento, mentre era al telefono con me.
Per quanto cercassi di immaginare la scena - lei distesa nel corridoio di casa col telefono in mano e il marito addosso che la strangolava -, non riuscivo a credere a ciò che mi raccontava. Le chiesi se, proprio mentre lei parlava con me, il marito la stesse davvero strangolando e lei mi rispose di sì, che stava premendo le dita sulla gola per ucciderla.
Allora urlai al telefono: " A., smettila, lascia stare tua moglie o chiamo i carabinieri". Dall'altro capo del lo mi giunse la voce di A.,il dottor D. : " Ho tentato per davvero di ucciderla, ma non ci sono riuscito. Adesso è lei che vuole uccidere me". La signora urlava nel frattempo: "Non è vero! Muoio dottore, mi aiuti, venga a salvarmi!".
"Adesso smettetela tutti e due, altrimenti vengo su io, sfondo la porta e vi faccio arrestare", urlai con quanto
ato avevo nei polmoni e, chiuso il telefono, mi apprestai ad uscire dalla stanza.Fuori della porta mi aspettavano due infermieri che mi tranquillizzarono. "Dottore, stia calmo, non si preoccupi, questi due litigano un giorno sì e uno no. Vedrà che si sono già calmati. E così fu. Il dottor D. venne dopo poco in ospedale con un occhio nero e la signora seguì di lì a poco tutta azzimata e con la solita scollatura oceanica a raccontarmi con voce afona che veramente il marito aveva tentato di ucciderla. Fece per entrare nella mia stanza, mostrando la pelle arrossata del collo, ma io mi misi di traverso.
Un po' contrariata la signora girò si tacchi altissimi e si involò attraverso la porta di ingresso dell'ospedale.
Il marito in gramaglie per il non riuscito uxoricidio mi confessò di aver tentato per davvero di strangolarla mentre lei parlava con me, ma di non essere riuscito, essendo stato da lei colpito con la cornetta del telefono e fuori combattimento
Le liti, i battibecchi, le provocazioni continuarono per i due anni in cui rimasi in ospedale e lui, il marito, negò sempre di avere un'amante. Fino al giorno in cui, uscito tardi dalla sala operatorio, vidi la porta socchiusa del ripostiglio delle scope, dietro la quale il dottor D. si agitava di spalle e me avvinghiato alla ferrista dai grandi e distanti occhi azzurri, uscita dalla sala poco prima di me, a cui lui aveva tirato su la gonna
no all'ombelico. Chiusi la porta lentamente e misi una scopa di traverso sull'uscio. Andai in sala operatoria e mi feci dare da un'inserviente un foglietto e un pezzo di scotch. Scrissi NON ENTRARE - DISINFEZIONE e attaccai il biglietto sulla porta dei due imprudenti e bugiardi amanti.Molti anni dopo, quando ero già ritornato a Canazei, mi telefonò il dottor B., il medico torinese che qualche mese dopo la sua assunzione aveva lasciato l'ospedale per prendere servizio in Piemonte.
Mi disse che i quotidiani lombardi quel giorno titolavano a caratteri cubitali che un noto medico mutualista, tale dottor A.D, medico siciliano ex dipendente dell'Ospedale di Salò, ora medico mutualista a Brescia, aveva accoltellato la moglie, poi trasportata d'urgenza e curata presso l'Ospedale civile del capoluogo per una ferita da coltello al torace.
ll collega torinese aveva avuto la notizia da una nostra comune amica, allora residente a Brescia, assidua frequentatrice di casa di mia e dell'ospedale, molto cara a mia moglie Erica, ma anche a lui, al nostro primario dell'epoca e ad un illustre avvocato, presso il quale svolgeva uf
cialmente mansioni di segretaria nello studio proprio di fronte al nosocomio salodiano.Ma questa è un'altra storia.
Luigi Leo Jesolo, 31 07
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