Viaggio Roma-Bari, solo andata Treno diretto della notte. Vagone di seconda classe. Settembre 1964
Il viaggio a Fiuggi era stata una galoppata notturna. Il Maggiolino Volkswagen tutto rosso non aveva perso un colpo lungo le salite dell'Irpinia e le infinite curve della statale. Evitata l'autostrada, avevamo scelto di percorrere tutta la litoranea da Cuma a Latina. Una breve sosta all'Antro della Sibilla - dove non avemmo il piacere di ascoltare oracoli - e via, lungo il Tirreno. Sulla Fettuccia di Terracina, vinti dalla noia della strada dritta dritta e da una irreprimibile fame, dopo aver ingaggiato un'impari duello con il roccioso gallo di lungo corso servito arrosto e garantito come pollo novello dalla famiglia di approssimativi gestori di un'improbabile osteria appollaiata di sghimbescio sulla duna, ci eravamo accontentati di un malinconico pezzo di pane e formaggio.
Fiuggi ci accolse affamati e stanchi. La piccola pensione scelta dai miei era immersa in una vegetazione da foresta pluviale. Ci offrirono il letto per riposare, ma ci comunicarono che la cena sarebbe stata servita non prima delle otto di sera. Il caldo umido e soffocante di quella torrida estate mi aveva consigliato di prendere al più presto la via del ritorno. Dopo un breve sonno popolato da incubi - polli completamente glabri becchettavano arzilli intorno a me, rubandomi briciole di pane e pezzetti di cacio - ero ripartito nel pomeriggio inoltrato alla volta della capitale. Neppure l'avvenente e premurosa cameriera, a cui avevo chiesto di svegliarmi in tempo e che per farlo si era seduta disinvolta e provocante sul mio letto, era riuscita a trattenermi.
Viaggio lento e noioso: la linea ferroviaria a scartamento ridotto, che all'epoca collegava la località termale con la capitale, si snodava ardita lungo un panoramico costone pietroso, ma aveva tabelle di marcia inadatte agli impazienti come me. Credo sia stata ridimensionata nel 2008 e che ora funzioni solo per pochi chilometri. Bello - pensavo durante il lento percorso- arrivare a Roma di sera e bighellonare per le vie del centro in cerca delle atmosfere felliniane della "Dolce vita". E allora, lasciata la valigia al deposito bagagli della stazione Termini, mi ero diretto a piedi a Via Veneto, passerella esclusiva della vita notturna della Capitale, che non era ancora affollata, mentre già si notava un crescente andirivieni di automobili di lusso, dalle quali scendevano lentamente donne vistose ed eleganti, sole o accompagnate, a caccia di visibilità e di qualche raro lampo delle macchine fotografiche già in agguato.
Le vere celebrità si sarebbero offerte agli obiettivi dei fotoreporter solo più tardi, nel pieno della vera notte romana. La tentazione del vicino "Piper Club", dove mietevano applausi, fortune e notorietà Caterina Caselli e Patty Pravo, non era alla mia portata: troppo caro il biglietto d'ingresso. Inavvicinabile il Café de Paris, zoo per mammiferi di lusso in esposizione - con quel caldo - ai tavolini del plateatico antistante alle scintillanti vetrine del famoso locale. Di quello storico tempio del pettegolezzo di rango e del jet set più frivolo, ma anche delle migliori lumache alla bourguignonne della mia vita, persino io avrei calpestato i marmi in una notte romana di qualche anno più tardi. Ma questa è un'altra storia.
Mi resi subito conto che quella Roma celebrata dalle cronache mondane e dalla filmografia dell'epoca, ambita da turisti curiosi e da illusi aspiranti a una benché minima fetta di notorietà, apparteneva a un mondo a me precluso, in cui mi sarebbe toccato al massimo un ruolo di imbambolato spettatore o di inconsapevole comparsa, anonimo tra gli anonimi in mezzo a un pubblico curioso e utile all'astuta e redditizia coreografia di quel circo non itinerante di volti noti, firme dell'alta moda e della finanza, universo di lustrini, fantasmagorie di gioielli veri o falsi, auto e femmine fuoriserie. Così, non attesi la mezzanotte - l'ora migliore per quel viavai e l'inquieto movimento dei paparazzi - e abbandonai lo spettacolo appena all'esordio, tornando sempre a piedi verso la Stazione Termini. Avrei preso il primo treno per Bari: meglio tornare a casa, che aggirarmi come un allocco per la Città eterna senza un progetto e con le tasche vuote. Poi, mi attendevano un paio di esami importanti e non avevo tempo da perdere; per non parlare del mio grande amore, che già dopo un giorno di separazione mi mancava come l'aria.
Era nato esitante quattro anni prima, quello strano amore, in un ritrovo underground di Corso Cavour a Bari, tra musiche di tendenza e affabulazioni di Moni Ovadia; era poi maturato nei corridoi dell'Ateneo e al freddo di una panchina in fondo al bel lungomare barese affollato da un'umanità insolitamente mattiniera. Sedevamo a una panchina di pietra un giorno di febbraio del 1961 in attesa di una eclissi totale di sole e ci stringevamo timidi l'uno all'altra nel freddo dell'ora. Il sole si era già levato tra stracci di nuvole sul mare Adriatico, quando eravamo lentamente sprofondati nel buio inquietante di una notte finta.
La fine dell'inconsueto fenomeno naturale ci aveva sorpresi abbracciati e increduli di quello spontaneo abbandono. L'amore vero era cresciuto in seguito, anche sotto gli sguardi severi di vigili urbani pronti ad infliggere multe a chiunque - in un qualsiasi parco e a una qualsiasi ora del giorno o della sera - avesse infranto anche con un solo furtivo bacio le leggi bacchettone di allora sul comune senso del pudore. Poi avevamo preso ad abbracciarci sul serio, prima con circospezione e pian piano con crescente disinvoltura, seduti nella ultime file del cinema teatro Margherita, occupatissimi a non guardare il film. Lì, di vigili urbani non ce n'erano e nel buio girava solo la maschera che, comprensiva e complice, indirizzava il fascio di luce della torcia lontano dagli innamorati, mentre la stereofonia dei film in Cinemascope copriva sussurri e sospiri. Così tra un'eclissi di sole e qualche film neppure degnato di uno sguardo, era cresciuta una passione intensa, esclusiva, unica, ma anche il mio amore devoto e totale, almeno da parte mia, che per quattro anni mi avrebbe rubato tranquillità e sicurezza. La bellezza mediterranea di quella donna, di un anno più grande di me, mi travolgeva: scultura greca, prorompente nel fisico e nel tratto, gli occhi neri come il carbone, la scura e paziente tarantola mi aveva tessuto intorno una sorta di bozzolo e mi faceva sentire persino disposto ad essere divorato. Era, la mia, una prigionia volontaria e caparbia, che turbava e impensieriva mia madre, mentre il solo sospetto dell'infedeltà avrebbe potuto togliere ogni senso a quel legame. Completamente soggiogato, ero arrivato al punto di riconoscere immancabilmente la sua presenza persino in mezzo alla folla, cogliendo la scia del suo profumo preferito, il Calycanthus Adam.
Le nostre fughe a bordo di autobus cittadini diretti in periferia finivano poi nelle campagne più disertate dai nostri simili. Continuavamo per ore, mano nella mano, a camminare in mezzo agli ulivi, spettatori discreti e silenziosi dei nostri baci. Qualche volta raggiungevamo il mare ad ovest della sua città, spiagge deserte bordate dai pini di Aleppo fitti e obliqui, inchinati come fedeli sudditi verso il mar Ionio. La nostra meta era la foce di un limpido fiumiciattolo gelido e poco profondo. Facevamo il bagno; qualche coppia si intratteneva lontano da noi che, abbracciati, le sole teste fuori dalle placide onde, non ci curavamo del gelo. Poi, in prossimità della sua laurea la mia montante gelosia aveva cominciato a scavare profonde gallerie nelle mie certezze: un insolito malessere trapelava dal mio tono, dai gesti, da un malcelato desiderio di rassicurazione sulla tenuta del nostro legame. Il pensiero che lei potesse divenire oggetto di attenzioni di altri uomini mi creava ansia, spesso vero e proprio panico. Comprensibile stato d'animo: avevo sperimentato per la prima volta la sensualità e l'abilità di una donna nel tenermi sempre sulla corda. Anche la prospettiva della sua indipendenza economica aveva finito per aprire altre minute crepe nella quotidianità della nostra relazione - piccoli moti di insofferenza da parte sua, qualche recriminazione, velenosi dubbi striscianti da parte mia - e dato luogo a conversazioni tediose, a comportamenti insofferenti. Io, rispetto a lei, ero appena all'inizio del quinto anno di Medicina e gli incubi si impadronivano di me ogniqualvolta la immaginavo desiderabile e bollente tra le braccia di un altro. Stavo male e terrificanti disturbi da attacchi di panico si susseguivano a tutte le ore del giorno e della notte. Tuttavia, credevo che lei rimanesse comunque la mia droga, il mio porto sicuro.
***
La Capitale, più bella di notte che di giorno per i miei gusti, quella sera di settembre era di fuoco, l'arroventava un venticello che toglieva il respiro. Camminando, chiusi angosce e dubbi nella ricca cartella clinica della mia grave malattia d'amore e mi feci prendere dai ricordi di altri miei brevi soggiorni romani, di uno in particolare. Diversi anni prima - durante un lungo viaggio premio attraverso l'intero Stivale -, a causa dell'insopportabile caldo di un torrido settembre avevo trascorso l'intera notte seduto sotto l'acqua fresca della doccia di un albergo di religiosi, dando il turno al mio compagno di stanza fino all'alba. Lo stesso dovevano aver fatto, squittendo senza ritegno, le due giovani turiste americane della camera accanto. Le avevo incrociate un paio di volte nel corridoio, lungo il quale si aggiravano, anch'esse accaldate, ostentando notevoli profili appena contenuti da minimi costumi da bagno sotto accappatoi lasciati aperti a tradire intenzionali esibizioni di non ben custodite intimità. Avevo sedici anni e non ero ancora svelto a riconoscere in quei vocalismi e nel succinto abbigliamento delle due fanciulle il linguaggio internazionale, la gestualità, la musica e il vestire più strategici della seduzione e, benché fossi ben attrezzato già da parecchio tempo per le prime prove di orchestra, non provai neppure a fare la loro conoscenza. Credevo inoltre - sbagliando - che nel mondo animale, a lanciare segnali di disponibilità e di interesse fossero, per insindacabile e irrinunciabile diritto-dovere, soltanto gli individui di genere maschile.
Archiviate rapidamente le memorie di quella brutta figura adolescenziale, recuperai il mio minuto bagaglio e mi diedi da fare per aggiudicarmi un biglietto ferroviario di seconda classe. Le file agli sportelli erano di una lunghezza disperante, ma infine con qualche espediente riuscii a guadagnare il primo posto nella coda tra l'insofferenza e le imprecazioni della gente in attesa. L'impresa più ardua fu montare sul quel treno della notte affollato e brulicante di una umanità chiassosa e madida di sudore che, tra lacrime, urli, raccomandazioni, baci e abbracci, dava l'assalto ai vagoni, mentre valigie e fagotti volavano dalla banchina all'interno dei convogli passando per i finestrini. Ero riuscito con innocue ma decise gomitate a farmi strada tra un nugolo di di gente invasata, a issarmi su per una scaletta d'accesso e a catapultarmi in un vagone con l'insospettata agilità di un felino. Lo scenario che mi si era presentato era sconfortante: bagagli ovunque, corpi distesi sul pavimento dei corridoi ad assicurarsi una qualsiasi misera area ove sostare e dormire, bambini urlanti in braccio a madri trafelate. Soltanto l'assenza di galline e di altri animali da cortile a spasso per il treno mi convinse che non mi trovavo a bordo di un convoglio in partenza per Samarcanda.
Percorsi tutte le carrozze di seconda classe come un cane da caccia e fiutai, nella nebbiosa atmosfera da foresta pluviale in cui mi muovevo, l'unico posto libero di uno scompartimento nella penultima carrozza occupato da tre suore - di quelle con il copricapo ad ali di farfalla - e due laici, un signore e una giovane donna. Il mio posto era quello tra la ragazza e una suora seduta accanto al finestrino. Sistemata la mia valigetta di fibra sull'unico portabagagli ancora vuoto, mi lasciai cadere sfinito sul sedile, scusandomi per il disturbo arrecato alla quiete monastica di quell'isola di pace. "Ormai c'è…", mi rispose laconica la giovane alla mia destra. Mi bastò un attimo per capire quale assortita umanità mi avrebbe tenuto compagnia nel corso dell'intera notte e per intuire le insidie di quella singolare sistemazione. Alla mia sinistra sedeva una suora giovane, il busto eretto, le ginocchia unite, il pallore conventuale del viso gentile dal nobile profilo, le labbra atteggiate in una piega impercettibilmente amara, due grandi occhi grigi e lo sguardo rassegnato e calamitato dalle consorelle sedute davanti a lei. Aveva accennato con un movimento del capo una timida risposta al mio saluto ed era stata fulminata da un'occhiataccia della mia dirimpettaia, che troneggiava massiccia con l'imperioso copricapo ben assicurato sul cranio che immaginai calvo. Costei mi guardava con occhi gelidi e felini, insediata tra una terza suora - che con le palpebre abbassate sgranava infaticabile un rosario e muoveva ritmicamente il labbro inferiore, pendulo testimone di afone giaculatorie - e l'uomo accanto alla porta dello scompartimento. Nello sguardo penetrante della religiosa lessi diffidenza e dispetto. Con la mia presenza avevo forse deluso le sue aspettative di allungare comodamente le gambe sul sedile di fronte, una volta che il treno fosse partito e le luci si fossero spente? Angosciosi interrogativi si facevano strada nella mia mente tormentata dalla prospettiva di una nuova notte insonne. Uno tra tutti: la farfallona avrebbe tenuto le scarpe o se le sarebbe tolte? Erano i tempi, in cui alla parola "piedi ", per dare un segno di buona educazione, si faceva seguire in successione l'immancabile "con rispetto parlando" a mo' di contrita e doverosa scusa. Segno di una diffusa convinzione che l'umanità poggiasse e si muovesse su due scandalose appendici indegne di essere menzionate. Io però avevo ulteriori cognizioni e sapevo che i piedi, oltre ad essere estremità speso sgradevoli per forma pulizia e odore, potevano in alcuni casi diventare anche strumento di sensuale provocazione fisica. Mi turbava anche l'idea di un casuale contatto con la più giovane delle religiose: prospettiva in un certo senso stimolante e che già evocava manzoniane reminiscenze, dando l'avvio a una danza blasfema di fantasie e di peccaminose, imperdonabili suggestioni. Al contrario, l'eventuale, temibile ma non del tutto escludibile tentativo di approccio galante dell'altra salvatrice di anime dagli occhi di ghiaccio mi avrebbe precipitato in uno stato di imbarazzo e di irreprimibile disagio. Differenti considerazioni si affacciavano invece alla mia mente riguardo alla ragazza alla mia destra. Lei esibiva una figura piacevole e lunghi capelli biondi e lisci; sedeva col busto in avanti, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e i pugni chiusi sotto il mento. Il suo seno poco più che adolescenziale segnava dolcemente la camicetta di cotonina che sembrava contenerlo libero da costrizioni o sostegni. Una gonna leggera le copriva appena le ginocchia, mentre le lunghe gambe abbronzate si protendevano ogni tanto in avanti, accavallandosi sulle caviglie nervose e i bei piedi calzati da leggeri sandali di cuoio. Piccole, ripetute, quasi impercettibili scosse animavano quelle avare nudità, denotando una certa inquietudine. Nei suoi rari e obliqui sguardi a me riservati avevo letto, senza capire perché, diffidenza e vaghi propositi di sfida. Per dirla tutta, il mio aspetto non doveva essere tranquillizzante dopo la faticosa trasferta e, nonostante i miei modi educati e il volto rasato con
cura prima di partire da Fiuggi, rimanevo pur sempre uno sconosciuto senza nome, privo di credenziali di affidabilità, sufficientemente sudato e troppo stropicciato per rivestire con successo il ruolo dell'affascinante compagno di viaggio. Ciononostante cominciava a solleticarmi il proposito di scalfire la comprensibile diffidenza dell'unico soggetto arruolabile per una conversazione da viaggio in treno. Il signore di fronte lei lo aveva chiamato babbo. Occupava tranquillo il posto accanto alla porta scorrevole. Gli occhi azzurri, le guance e le sopracciglia un po' cascanti, l'alto cappello di feltro nero a larghe tese mi ricordavano il Gary Cooper di Mezzogiorno di fuoco. Scambiava qualche parola con la figlia, il volto amimico e lo sguardo ceruleo fisso e limpido. In quelle condizioni di stringente controllo da parte di alcuni dei miei compagni di viaggio, anche il solo tentativo di attaccare discorso con la ragazza mi pareva impraticabile, o perlomeno melenso o destinato a fallire. Insomma, in quella notte rovente, accaldato e stanco, digiuno ormai da oltre dodici ore, seduto scomodo in una sorta di diligenza di Stato, stretto tra due giovani donne, controllato da un sopravvissuto membro della Santa Inquisizione e da un genitore sino ad allora vigile, mi rassegnai a tentare il difficile recupero di un poco del sonno perso la notte precedente. Ogni tanto però riaprivo gli occhi incapace di addormentarmi. Il mite cow boy, apparentemente innocuo e di sicuro disarmato, quanto del tutto disinteressato all'angelica compagnia, sembrava un po' assente e di tanto in tanto in procinto di appisolarsi, cullato dal discreto dondolio della carrozza ferroviaria. La ragazza aveva disteso ancor più le gambe verso il padre e sedeva a braccia conserte, il tronco appoggiato allo schienale, appena mossa dalle oscillazioni del convoglio sugli scambi, gli occhi chiusi, il respiro regolare. Il treno, subito dopo la partenza, procedeva lentamente ed io mi andavo chiedendo se la mia vicina di destra, che nel frattempo si era più comodamente seduta con le mani in grembo, una volta addormentata sarebbe rimasta stabile nella sua posizione, o se sarebbe crollata sulla mia spalla alla prima curva percorsa in velocità, La prospettiva non mi sarebbe dispiaciuta, tuttavia mi riproposi di restare indifferente a quell'eventuale contatto, limitandomi semmai a fare opera buona e ad accontentarmi di un innocente ruolo di poggiatesta.
Ben presto però cominciai a chiedermi se un simile evento, per quanto improbabile, non potesse verificarsi proprio per una scelta deliberata della fanciulla. A quel punto cos'avrei fatto? Resistere immobile o tentare un cauto approccio? Perso tra mille congetture e un turbinio di scrupoli, cedetti alla mia debolezza e mi scoprii a pregare in un leggero dormiveglia che il treno si fermasse per un guasto, che si verificasse un piccolo incidente ferroviario, semmai un camion appena sporgente sulla linea ferroviaria ad un passaggio a livello male custodito, una collisione senza morti o feriti, o un'avaria in grado di rallentare anche di poco il viaggio per lasciarmi il tempo di vivere un'esperienza non proprio limitata a un arido scambio di chiacchiere.
Dovevo aver visto, senza ombra di dubbio, troppi film sull'Agente 007 e sull'Orient Express. A questo punto mi vergognai di me stesso: mi ero votato anima e corpo in eguale misura ad una sola donna da quattro anni e il pensiero di lasciarmi tentare da nuove conoscenze dagli sviluppi imprevedibili mi faceva sentire in colpa. D'altro canto, l'universo femminile per me rimaneva un mistero insondabile e dal fascino tanto oscuro, quanto irresistibile, che nel caso particolare avrebbe meritato di essere accuratamente esplorato nonostante l'ostinata fedeltà all'unica donna che mi aveva sino ad allora reso schiavo. La ragazza accanto mi faceva pensare di più a un giardino ombroso e intimo, invitante e accogliente, che alla giungla poco rassicurante in cui ero stato trascinato e tenuto prigioniero dalla mia passione lontana. Il treno prese velocità, incurante del suo carico di speranze e di illusioni, comprese le mie. Non una parola tra me e la giovane, che prima della partenza del convoglio aveva scambiato soltanto qualche raro monosillabo col padre sceriffo. Da quella lacunosa e quasi sussurrata conversazione ero riuscito a capire che venivano da Cecina, si erano fermati a Roma per una breve visita a parenti, e si stavano recando a Modugno da cugini del padre. Anche l'angelo vendicatore aveva risparmiato il fiato, limitandosi a chiedermi chiocciando dove sarei sceso e a regalarmi una smorfia di disappunto nell'apprendere che non avrei mollato il posto fino a Bari. Le altre due consorelle, invece, mi avevano fatto segno, una di lacrimosi sguardi di cristiana e silenziosa comprensione, la più giovane di un appena percettibile ma ripetuto battere di ciglia, come di una richiesta di soccorso in alfabeto Morse.
Tra Roma e Napoli, sotto la luce notturna livida dello scompartimento eravamo tutti spettri boccheggianti nella calura per totale assenza di ventilazione. Non ne potevo più, ma la mia proposta di abbassare anche di un poco il finestrino era stata accolta con entusiasmo dalla giovane toscana, giudicata accettabile da suo padre e irrevocabilmente bocciata dalle religiose: temevano impetuosi flussi di aria e un catastrofico effetto vela sui loro candidi copricapi. Lo sceriffo, pacifico e incurante del caldo nella sua giacca di panno di lana pesante, rassegnato al volere delle pie donne, ben presto prese sonno col cappello sugli occhi; cullato dai movimenti del treno, russava discreto, senza interruzioni o avvisaglie di improvvisi risvegli, il ronfare ritmato dal rumore delle ruote del vagone ogni due o tre passaggi sui giunti delle rotaie. Dovetti essermi appena addormentato, per svegliarmi di colpo con una sensazione non spiacevole di peso sulla spalla sinistra. La suorina era franata su di me, cosicché ci fu uno scalpiccio improvviso, un paio di piedi volarono giù dal sedile alla mia sinistra a cercare febbrilmente le scarpe sul pavimento, mentre una mano si allungava ad artigliare e a scuotere l'incauta addormentata al mio fianco. La suora giovane si destò agitata, s'aggiustò rapidamente il copricapo e balbettando sussurrò timide scuse, mentre l'angelo guardiano seduto di fronte trafiggeva me e la poverina con sinistre e lampeggianti occhiate cariche di disapprovazione e di implicite minacce non proprio compatibili con la sua funzione angelica. Il terzo angelo pencolava nel suo cantuccio vicino al finestrino con la bocca semiaperta e la testa appiccicata al vetro, il cappello di arte origami tutto di sghimbescio, come le ali storte di una farfalla abbattuta. La religiosa al mio fianco raggiunse rapida il poggiatesta alla sua sinistra. Voleva essere il rassicurante messaggio di un contrito pentimento e di una promessa solenne di tenersi a prudente distanza da me, attenta per tutto il viaggio soltanto al suo ingombrante copricapo. Con le ginocchia saldamente strette nonostante gli scossoni del treno e con le braccia conserte - segni eloquenti di un incrollabile, quanto obbligato rifiuto di qualsivoglia forma di contatto fisico, anche il più innocente, con me giovane rappresentante del sesso maschile sedutole accanto - sprofondò in una specie di trance ipnotica, dalla quale emergeva di tanto in tanto con qualche scossa delle spalle e dell'ingombrante impalcatura sul capo, una sorta di brivido, forse il tentativo di liberarsi di un incubo o di un sogno troppo piacevole per essere lasciato libero di proseguire fino a produrre chissà quali devastanti effetti sul corpo e sull'anima, ma soprattutto sulle non sempre inespugnabili certezze della vocazione.
Tanto mi suggeriva la mia immaginazione malata, mentre Morfeo sembrava essersi insediato con discreto successo nella torrida notte dello scompartimento, pronto ad accogliere anche me tra le sue braccia.
- Continua…
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